SHANTIDEVA

Guru Shantideva

Altri sono i miei interessi:
Quando noto qualcosa di mio,
Lo rubo e lo do’ agli altri.

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Attraverso il potere dell’abitudine
Sono giunto a vedere me stesso
Come un insignificante insieme di uovo e sperma.

 

Le informazioni storiche accertate sulla vita di Shantideva sono veramente scarse. Di lui si sa che visse tra la fine del settimo e la metà dell’ottavo secolo, e le scarne notizie che riporto sono tratte dai lavori degli storici tibetani. Il famoso storico tibetano Buton afferma che nacque come principe ereditario del re di Surastra, regno che si trovava forse nell’odierno Gujarat, ma che all’approssimarsi della sua maggiore età gli apparve il Bodhisattva Manjushri per dissuaderlo di salire al trono. Secondo Taranatha fu invece la dea Tara a comparirgli in sogno per indurlo a rinunciare alla vita mondana e dedicarsi allo studio della Dottrina Buddhista.

Si dice che abbia praticato per dodici anni con un maestro la concentrazione su Manjushri, ma altri affermano invece che passò quegli stessi anni come militare di carriera. Sia come sia lo ritroviamo nella famosa università di Nalanda, dove però fu all’inizio soprannominato dagli altri monaci come “colui che compie solo tre attività”, cioè mangiare, dormire e defecare.

Nalanda era colma di grandi studiosi, dotti e Pandita che non gradivano il comportamento di Shantideva, che per loro era motivo di vergogna. Cercando un pretesto per espellerlo, gli chiesero di dare insegnamenti, come a turno ogni monaco residente era tenuto a fare.
La storia continua narrando che il seggio che gli era stato approntato era alto, ma senza gradini di accesso, ma che Shantideva lo abbassò con il gesto della mano. L’assemblea non si lasciò scomporre e lo invitò ad presentare un insegnamento del tutto nuovo, mai ascoltato prima. Quindi Shantideva cominciò ad esporre la sua grande opera poetica, il Bodhisattvacaryavatara, dando prova della sua conoscenza dei testi dottrinali e della sua comprensione spirituale. Giunto al nono capitolo, allorché giunse al verso “ Quando il reale e il non reale sono entrambi assenti dalla mente…”si dice che si alzò col suo trono verso l’alto, continuando ad insegnare e che solo i Pandita con particolari realizzazioni, riuscirono ad ascoltarlo a quella distanza.

Il Maestro Shantarakshita, che visitò il Tibet verso il 763, cita nel suo Tattvasiddhi un’ intera strofa del Bodhisattvacaryavatara, dimostrando che Shantideva era già ben conosciuto prima di quella data.

Dopo aver declamato il Bodhisattvacaryavatara, Shantideva lasciò Nalanda, ma le versioni memorizzate dai vari Pandita durante l’esposizione, differivano nel numero dei versi e dei capitoli. Per questo, avendo saputo che Shantideva dimorava nel sud dell’India presso lo stupa di Shridakshina, due Pandita si recarono da lui per risolvere ogni dubbio. Avuta conferma di quella che era la versione originale, i Pandita ricevettero da Shantideva anche l’indicazione che permise loro di trovare, nascosti sopra l’impalcatura di legno della sua precedente cella monastica a Nalanda, il Sutrasamuccaya e il Shikshamuccaya.

In seguito Shantideva lasciò l’abito monastico e intraprese la vita del Mahasiddha, l’asceta itinerante, e viaggiando estesamente, si dice che compì numerosi miracoli e atti di bontà per il beneficio degli esseri.

Il Bodhisattvacaryavatara e il Shishamuccaya furono tradotti in lingua tibetana ed inseriti nel canestro del Sutrapitaka, come insegnamenti che riguardano Metodo e Concentrazione. Ciò avvenne poco dopo la loro compilazione, a dimostrazione del fatto che in Tibet come in India, essi furono considerati testi di importanza vitale per il Mahayana, appartenendo entrambi alla tradizione Madhyamaka.

Il Bodhisattvacaryavatara, liberamente tradotto come “Guida allo stile di vita del Bodhisattva”, o anche “Entrata nel Sentiero dell’Illuminazione” è composto da dieci capitoli formati da “stanze” di quattro linee ciascuna. Composto originalmente in lingua sanscrita, si trova ora soltanto disponibile nella sua traduzione tibetana, dalla quale sono state tratte numerose versioni nelle lingue occidentali. In tibetano i primi otto capitoli e il decimo sono stati tradotti in versi come nel testo radice, ma il nono capitolo, quello che tratta della Saggezza, e stato delineato in prosa per la sua difficile comprensione. Molti commentari sono stati prodotti nel tempo a questo testo e quello di Thogme Zangpo è quello più comunemente usato per chiarificarne i concetti.

La struttura tematica dell’opera si fonda sulle sei Perfezioni o Paramita, che costituiscono il Sentiero del Bodhisattva verso l’Illuminazione. Nella presentazione del suo lavoro Shantideva afferma che esso è totalmente conforme agli insegnamenti dei Sutra Mahayana e che nulla è di sua invenzione. Resta il fatto che il testo è altamente poetico e rimane una guida insostituibile alla pratica del Sentiero del Bodhisattva.

Il Shishamuccaya è un opera composita perché contiene sia un commento a ventisette strofe redatte dallo stesso Shantideva, sia perché l’intero testo è un antologia di citazioni tratte da un centinaio di Sutra Mahayana, appartenenti a testi ormai perduti nell’originale sanscrito. Esso tratta della disciplina e prende nuovamente in esame le sei virtù o Perfezioni ed è formata da diciannove capitoli.

Il Bodhisattvacaryavatara è disponibile in versione Italiana a cura della Chiara Luce edizioni con il commento del Venerabile Ghesce Yeshe Tobden.

Il Shishamuccaya è stato edito in italiano col titolo “Il cammino del Bodhisattva” dalla casa editrice Edilibri nel 2004.