Majjhimanikayo

Editato e condensato da Pier Antonio Morniroli / Enrico Federici"

Pubblicazione e aggiornamenti nuovi capitoli in Lista Dharma

 

PRINCIPIO

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Ukkatthâ, nel parco, al piede d’un albero magnifico. Là il Sublime si rivolse ai bhikkhu: “Monaci!” – “Illustre!” replicarono i monaci. Il Sublime parlò così: “Voglio mostrarvi, monaci, il principio di tutte le cose: ascoltate e fate bene attenzione.” “Sì, Signore!” risposero attenti i monaci. Il Sublime disse: “Ecco, monaci, c’è uno che niente ha conosciuto, un uomo comune, senza comprensione per ciò che è santo, estraneo alla santa dottrina, inaccessibile ad essa; senza comprensione per ciò che è nobile, estraneo alla dottrina dei nobili, inaccessibile ad essa. Egli prende la terra come terra, pensa alla terra, pensa sulla terra, pensa ‘Mia è la terra’ e si rallegra di ciò: e perché? Perché egli non la conosce, dico io. Lo stesso gli accade dell’acqua, del fuoco, dell’aria, della natura, degli dei, del Signore della generazione, di Brahmâ, dei Lucenti, dei Raggianti, dei Possenti, dell’Ultrapossente, dell’illimitata sfera dello spazio, dell’ illimitata sfera della coscienza, della sfera della non esistenza, del limite di possibile percezione, del sentito come sentito, del pensato come pensato, del conosciuto come conosciuto, dell’unità come unità, della molteplicità come molteplicità, del tutto come tutto, dell’estinzione come estinzione. Ma chi, monaci, come asceta che lotta, che con coraggio cerca di conseguire l’incomparabile sicurezza, anche a lui vale la terra come terra, allora egli deve non pensare terra, non pensare alla terra, non pensare sulla terra, non pensare ‘Mia è la terra’, non rallegrarsi della terra: e perché? Perché impari a conoscerla, dico io. Acqua, fuoco, aria, natura e dei, unicità e molteplicità, il tutto vale a lui come tutto e allora egli deve non pensare il tutto, non pensare al tutto, non pensare sul tutto, non pensare ‘Mio è il tutto’, non rallegrarsi del tutto: e perché? Perché impari a conoscerlo, dico io. L’estinzione vale a lui come estinzione, allora egli deve non pensare all’estinzione, non pensare sull’estinzione, non pensare ‘Mia è l’ estinzione’, non rallegrarsi dell’estinzione: e perché? Perché impari a conoscerla, dico io. Ma chi, monaci, come santo monaco, estinto, giunto alla fine, avendo compiuta l’opera, essendosi scaricato del peso, avendo raggiunto lo scopo, ha distrutto i vincoli dell’esistenza, s’è redento in perfetta sapienza, anche a lui accade la stessa cosa nei confronti della terra e di tutte le altre cose, e non pensa ‘Mia è l’estinzione’. Perché? Perché egli la conosce, dico, perché estinta la brama, è senza brama. Perché estinta l’ avversione, è senza avversione. E non pensa nemmeno ‘Mio è il tutto’ perché egli, estinto l’errore, è senza errore. Il Compiuto, monaci, il Santo, perfetto Svegliato non pensa ‘Mia è l’ estinzione’ perché il Compiuto la conosce, dico io. E neppure pensa ‘Mia è la terra’ perché ha scoperto ‘Il Diletto è radice di dolore; il divenire genera, il divenuto invecchia e muore’. Perciò dunque, monaci, il Compiuto ad ogni sete di vita morto, svezzato, divelto, sfuggito, svincolato, è risvegliato nell’incomparabile perfetto risveglio. Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della parola del Sublime.

M 2 OGNI ASAVA* ( SABBASAVASUTTAM )

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime nella Selva del Vincitore, il parco di Anathapindiko, e parlo’ ai monaci cosi’: Voglio mostrarvi come ci si difenda da ogni asava; all’esperto io annunzio come estinguere gli asava occorre riconoscere leggera attenzione e profonda attenzione. Leggera attenzione fa germogliare nuovi asava e rinforza gli antichi; profonda attenzione, o monaci, non fa sorgere nuovi asava e distrugge gli antichi. Gli asava devono essere superati: sapendo; difendendosi; curandosi; pazientando; fuggendo; combattendo; operando.Quale asava sara’ superato sapendo? Supponiamo che vi sia un uomo comune, che non ha conosciuto niente, senza intendimento per cio’ che e’ santo, estraneo ed inaccessibile alla dottrina, a cio’ che e’ nobile, alla dottrina dei nobili, e che non riconosce cio’ che merita attenzione e non riconosce cio’ che non merita attenzione. Senza conoscenza delle cose degne e di quelle indegne, egli fa attenzione all’indegno e non al degno. Cos’e’ l’indegno che egli reputa degno? Quello per la cui stima germoglia nuova smania di desiderio, di esistenza, di errore, e l’antica si rinforza. E cos’e’ il degno che egli non reputa degno? Quello per la cui stima non puo’ sorgere nuova smania di desiderio, di esistenza, di errore e l’antica e’ distrutta. Cosi’, mentre reputa degne cose indegne e indegne cose degne, nuovi asava sorgono in lui e gli antichi si rinforzano. E con leggera attenzione egli pensa cosi’: sono mai esistito nelle epoche passate? O non sono mai esistito? Che cosa sono stato o non sono stato nelle epoche passate? E in che modo sono divenuto quel che allora sono stato? Esistero’ o non esistero’ nelle epoche future? E in che modo? Anche il presente lo riempie di dubbi: Esisto o non esisto? Che cosa e come sono, io? Da dove sono venuto e dove andro’? E con tali pensieri leggeri egli giunge ad una delle sei opinioni, diviene in lui ferma persuasione: io ho un’anima; io non ho un’anima; animato prevedo animazione; animato prevedo disanimazione; senz’anima prevedo animazione; questo me stesso si trovera’ qua e la’, a godere la mercede delle buone e delle cattive opere; e questo me stesso e’ permanente, persistente, eterno, immutabile, rimarra’ quindi a se’ eternamente eguale. Questo si chiama, o monaci, vico delle opinioni, caverna delle opinioni, gola delle opinioni, spina delle opinioni, roveto delle opinioni, rete delle opinioni. Impigliatosi nella rete delle opinioni, o monaci, l’inesperto figlio della terra non si libera dal nascere, dall’invecchiare e morire, da bisogno, miserie e pene, da strazio e disperazione, non si libera, io dico, dal dolore. Ma l’esperto, santo discepolo, che accede alla dottrina, riconosce cio’ che merita attenzione e riconosce cio’ che non merita attenzione, stima cio’ che e’ degno e non stima l’indegno, percio’ in lui non sorgono nuovi asava e gli antichi si estinguono. Questo e’ il dolore, pensa egli profondamente; questa e’ l’origine del dolore; questo e’ l’annientamento del dolore; questa e’ la via che conduce all’annientamento del dolore. E con tale profondo pensiero gli si sciolgono i tre irretimenti: la fede nella perduranza personale, la dubbiosa incertezza e l’ascesi come scopo a se stessa.Quale asava sara’ superato difendendosi? Ecco, o monaci, un monaco si munisce di riflessione quale arma ed efficace difesa della vista, perche’ se egli lasciasse inerme la sua vista, allora scenderebbe su di lui turbante, dannosa smania; ma la vista munita di difesa tiene lontana da lui la turbante, dannosa smania. Alla stessa stregua, egli si munisce di riflessione quale arma di difesa dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto, del pensiero.Quale asava sara’ superato curandosi? Ecco, o monaci, un monaco ha cura dell’abito a ragion veduta, solo per ripararsi dal freddo, dal caldo, dal vento e dalla tempesta, da zanzare e vespe e fastidiosi animali striscianti, solo per coprire le sue pudende. A ragion veduta egli ha cura del cibo elemosinato, non per godimento o diletto, non per essere florido e bello, ma solo per conservare e sostentare questo corpo, per scansare danni, per poter menare santa vita: “ Cosi’ io estinguero’ la sensazione di prima e non ne faro’ sorgere una nuova, e ne avro’ abbastanza per immacolato benessere”. A ragion veduta egli ha cura del giaciglio, solo per ripararsi dal freddo, dal caldo, dal vento e dalla tempesta, da zanzare e vespe e fastidiosi animali striscianti, solo per evitare pericoli, per poter godere di tranquillita’. A ragion veduta egli ha cura delle medicine nel caso di una malattia, solo per sedare vive, dolorose sensazioni, per raggiungere il vero scopo: indipendenza. Se egli fosse trascurato potrebbe essere colpito da turbante, dannosa smania.Ma quale asava, o monaci, e’ quello che deve essere superato pazientando? Ecco, o monaci, un monaco sopporta a ragion veduta freddo e caldo, fame e sete, vento e tempesta, zanzare e vespe e fastidiosi animali striscianti; ed ai maligni, malevoli discorsi, alle corporali sensazioni di dolore che lo colpiscono, violenti, taglienti, pungenti, sgradevoli, moleste, pericolose di vita, egli pazientando non si cura. Perche’ se egli divenisse impaziente, o monaci, allora scenderebbe su di lui turbante, dannosa smania: percio’ egli rimane paziente e sfugge alla turbante, smaniosa smania.Ma quale asava, o monaci, e’ quello che deve essere superato fuggendo? Ecco, o monaci, un monaco fugge a ragion veduta un elefante infuriato, un cavallo infuriato, un cane infuriato, egli fugge i serpenti, evita il suolo disboscato, gli spinosi sterpeti, le pozze e i fossi, i pantani e le paludi. Luoghi che non sono adatti alla dimora, posti che non sono adatti al cammino, amici che non sono adatti al consorzio e che ad esperti fratelli dell’Ordine non sarebbero graditi: tali luoghi, tali posti, tali amici egli fugge a ragion veduta, e cosi’ sfugge alla turbante, dannosa smania.Ma quale asava, o monaci, e’ quello che deve essere superato combattendo? Ecco, o monaci, un monaco a ragion veduta non da’ campo a pensieri di brama, di avversione, di furore che siano sorti in lui, li rinnega, li scaccia, li estirpa, li soffoca in germe. Ma se egli cedesse, allora scenderebbe su di lui turbante, dannosa smania: percio’ egli li combatte e ne rimane libero.Ma qual’e’, o monaci, l’asava che deve essere superato operando? Ecco, o monaci, un monaco opera a ragion veduta il risveglio del sapere, del raccoglimento, della forza, della serenita’, della calma, dell’approfondimento, dell’equanimita’. Senza operare soggiacerebbe a turbante, dannosa smania, ma se opera nessuna turbante, dannosa smania lo raggiunge.Se ora, o monaci, un monaco ha superato gli asava sapendo, difendendosi, curandosi, pazientando, fuggendo, combattendo, operando, allora lo si chiama monaco che ha reciso la sete di vivere, ha infranto i vincoli, e con la completa conquista degli asava ha messo fine al dolore.Asava = contaminazioni mentali. Per la precisione: kama = sensualita’ bhava = rinascita dhitta = speculazioni avijja = ignoranza Chi estingue gli asava e’ un Arahat

I PARTE – 03 - EREDI DELLA DOTTRINA

 Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anâthapindiko. Là il Sublime si rivolse ai monaci così: <<Monaci, siate eredi della dottrina, non eredi del bisogno. Ve lo dico per compassione e per evitare critiche da parte della gente. Se io a mezzogiorno ho finito un pasto sufficiente, adeguato, e sono abbastanza sazio, ma mi avanza ancora un po’ del cibo elemosinato che dovrebbe essere gettato, e mi si presentano due monaci stanchi e affamati, io li inviterò.>> Uno dei due monaci potrebbe pensare: <<Se non accetto, il Sublime dovrà gettare l’avanzo, secondo consuetudine, in un luogo dove non ci sia erba o in acqua corrente>>. Egli ricorda l’insegnamento del Sublime che esorta a essere eredi della dottrina e non del bisogno, quindi si propone di rinunciarvi e, pur affamato e stanco com’è, di resistere sino al mezzogiorno dell’indomani. L’altro monaco, pur consapevole di tutto ciò, accetta l’avanzo per vincere la fame e la stanchezza. Legittimamente il secondo monaco ha accettato l’avanzo, ma il primo è più degno e meritevole perché il suo comportamento lo farà avanzare sempre più nella moderazione, nella contentezza, nella semplicità e nella perseveranza. Così parlò il Sublime, e, alzatosi, rientrò nell’eremo. Subito dopo prese la parola l’onorevole Sâriputto: <<Fratelli monaci, ora che il Maestro si è ritirato, in che modo i discepoli trascurano la solitudine, in che modo la curano?>> E i monaci: <<Verremmo anche da lontano per ascoltare la tua parola, fratello; parla, terremo a mente le tue parole>>. Allora Sâriputto: <<Così voi, discepoli del Maestro che vive solitario, trascurate la solitudine: non disprezzate ciò che Egli ha indicato come spregevole; diventate pieni di pretese e importuni, cercate la compagnia e fuggite dalla solitudine come un grave peso. In tal modo i fratelli più anziani si vergognano per tre cose: primo, che non amate la solitudine; secondo, che non disprezzate ciò che il Maestro ha indicato come spregevole; terzo, che cercate compagnia evitando la solitudine. Ciò fa vergognare i fratelli più anziani, ma anche quelli medi e quelli nuovi. E in che modo voi curate la solitudine: disprezzando ciò che dev’essere disprezzato; non diventando pretenziosi e molesti; evitando la compagnia come grave peso e ricercando la solitudine. Queste sono le cose che fanno onore ai monaci più anziani come a quelli medi, come a quelli nuovi. Ora, fratelli, osservate: la brama fa male e l’avversione fa male. C’è una via di mezzo per sfuggire ad esse: una via che rende veggenti e sapienti, che produce sollievo, chiara visione che conduce al risveglio, all’ estinzione. E’ questo santo sentiero ottopartito, cioè: retti cognizione, intenzione, parola, azione, vita, sforzo, sapere, raccoglimento. E ira e discordia fanno male, fratelli, e così pure fanno male ipocrisia e invidia, gelosia ed egoismo, inganno e astuzia, ostinazione e violenza, superbia e vanità, accidia e negligenza.>> Così parlò l’onorevole Sâriputto. Contenti si rallegrarono quei monaci della sua parola..

M. 4 SPAVENTO E TERRORE - ( BHAYABHERAVASUTTAM )

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko. Ecco ora venne Janussoni, un brahmano che saluto’ il Sublime con reverenza e, scambiate amichevoli, notevoli parole, gli si sedette accanto e cosi’ gli si rivolse: “Questi nobili giovani, o Gotamo, i quali, fidando nel signore Gotamo, hanno lasciato la casa per l’eremo, essi onorano, hanno eletto a loro duce e hanno fatta propria la concezione di vita e la regola di vita del signore Gotamo.” “ Cosi’ e’, o brahmano, questi nobili giovani hanno fatto ciò.” “ Duramente si vive pero’, o Gotamo, nella profonda foresta, in luoghi remoti; e’ difficile amare la solitudine e goderne il ritiro; i recessi della foresta ad un monaco che non puo’ dominarsi, certo fanno agghiacciare il cuore nel petto.” “Cosi’ e’ o brahmano. E’ accaduto anche a me, prima del pieno risveglio, quand’ero ancora imperfetto e cercavo, appunto, di raggiungere il risveglio. Allora io mi dissi: tutti quei cari asceti o brahamani che, non retti in azioni, cercano luoghi remoti nel profondo della foresta, quelli, appunto perche’ il loro agire non e’ retto, debitamente provano spavento e terrore; ma io, che essendo retto in azioni, cerco luoghi remoti nel profondo della foresta, io seguo retto agire: se quindi vi sono uomini probi che, essendo retti in azioni, cercano luoghi remoti nel profondo della foresta, io sono uno di essi. Quando io, o brahamano, osservai che possedevo questa rettitudine dell’agire, crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli non retti in parole, provano spavento e terrore; ma io dico rette parole e quando osservai che possedevo questa rettitudine della parola, crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli non retti in pensieri, provano spavento e terrore; ma io seguo retti pensieri e percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che non hanno retto animo, provano spavento e terrore; ma io seguo la rettitudine d’animo, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono bramosi e pieni di veementi desideri, provano spavento e terrore; ma io abbandonai le brame, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono acri ed irosi, provano spavento e terrore; ma io sento compassione ed abbandonai l’ira, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono accidiosi e pigri, provano spavento e terrore; ma io sono libero da accidiosa pigrizia, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono agitati e con spirito irrequieto, provano spavento e terrore; ma io, senza agitazione, sono tranquillo, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono incerti e dubbiosi, provano spavento e terrore; ma io sono sicuro e senza dubbi, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che lodano se stessi e biasimano il prossimo, provano spavento e terrore; ma io, senza impettirmi, non disprezzo gli altri, e quando osservai che il lodare me stesso e biasimare gli altri mi era estraneo, crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che tremano e sono timorosi, provano spavento e terrore; ma io sono libero da tremito e timore, percio’ crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono avidi di ricompense, onori e riguardi, provano spavento e terrore; ma io spregiando ricompense, onori e riguardi, mi modero; quando osservai che possedevo questa moderazione, crebbe il mio compiacimento nella vita della foresta. Quelli che sono affranti e frustrati, provano spavento e terrore; ma io, ne’ affranto, ne’ frustrato, cerco luoghi remoti nel profondo della foresta. Quelli che hanno la mente confusa e torbida, provano spavento e terrore; ma io, che senza confusione ne’ turbamento cerco luoghi remoti nel profondo della foresta, io sono di chiara mente. Quelli che con inquieti e distratti sensi cercano luoghi remoti nel profondo della foresta, provano spavento e terrore; ma io, che non inquieto ne’ distratto cerco luoghi remoti nel profondo della foresta, io sono padrone di me. Quelli che stupidi e stolti, cercano luoghi remoti nel profondo della foresta, provano spavento e terrore; ma io, che non essendo ne’ stupido ne’ stolto, cerco luoghi remoti nella foresta, io sono savio. Allora io mi dissi, o brahmano: dunque se in certe notti paurose, al plenilunio e al novilunio, al quarto crescente ed al calante, io cercassi sepolcri nei boschi, nelle selve, sotto gli alberi, e dimorassi in sedi di raccapriccio e di orrore, per poter pur’io provare che sia quello spavento e terrore? E infatti nel corso del tempo, io dimorai in sedi di raccapriccio e di orrore. E mentre io stavo la’, ecco che un capriolo si avvicinava, o un gallo di bosco spezzava un ramo, o il vento scuoteva il fogliame; ed io pensavo: ora apparira’ certamente quello spavento e terrore. Ed allora io mi dissi, o brahamano: ma perche’ aspettero’ inerte l’apparire della paura? Non sarebbe meglio che, appena quello spavento e terrore dovesse comunque mostrarsi, io immediatamente l’affrontassi? E quello spavento e terrore scese su di me mentre io camminavo su e giu’. Ma io ne’ mi fermai, ne’ mi sedei, ne’ mi distesi, finche’, su e giu’ camminando, stando dritto e fermo, stando seduto, mentre giacevo, non ebbi affrontato e disperso quello spavento e terrore. Pure vi sono anche, o brahmano, parecchi asceti e brahmani che fanno della notte giorno e del giorno notte. Cio’ io chiamo una vanita’ di quegli asceti e brahmani. Io pero’ tengo la notte per notte e il giorno per giorno. Chi ora , o brahmano, puo’ dire con diritto di un uomo: un essere senza vanita’ e’ apparso nel mondo, per il bene di molti, per la salute di molti, per compassione del mondo, per utile, bene e salute degli dèi e degli uomini; costui appunto puo’ dire questo di me. Costante pero’ io perseverai, senza vacillare, con mente chiara, senza confusione, con sensi tranquilli, senza agitazione, con animo raccolto, unificato. Lungi da brame, lungi da cose non salutari, io restavo in sensiente, pensante, nata di pace, beata serenita’: cosi’ raggiunsi la prima contemplazione. Dopo compimento del sentire e pensare, io raggiunsi l’interna calma, l’unita’ dell’animo, la libera di sentire e pensare, beata serenita’, la seconda contemplazione. In serena pace io restavo equanime, savio, chiaro e cosciente, provavo in me la felicita’ di cui i probi dicono: l’equanime savio vive felice; cosi’ raggiunsi la terza contemplazione. Dopo rigetto di gioie e dolori, dopo annientamento della letizia e della tristezza anteriore, io raggiunsi la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione. Con tale animo saldo, purificato, terso, sincero, schiarito di scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, io drizzai l’animo alla memore cognizione di anteriori forme di esistenza. E mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza come di una vita, di due vite, di tre, quattro, cinque, dieci vite, venti, trenta, quaranta, cinquanta vite, cento vite, mille, centomila vite, poi delle epoche durante parecchie formazioni e trasformazioni di mondi. La’ ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, quello il mio ufficio, provai tal bene e male, e cosi’ fu la fine di mia vita; di la’ trapassato entrai io altrove di nuovo in esistenza e cosi’ via. Cosi’ io mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza, ognuna con i propri contrassegni, ognuna con le sue speciali relazioni. Questa scienza, o brahmano, io avevo nelle prime ore della notte conquistato per prima, avevo dissipato l’ignoranza, conseguito la saggezza, dissipata l’oscurita’, conseguita la luce, mentre con serio intendimento, solerte, infaticabile dimoravo. Con tale animo saldo, purificato, terso, sincero, schiarito di scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, drizzai l’animo alla cognizione dello sparire ed apparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, io vidi gli esseri scomparire e riapparire, volgari e nobili, belli e non belli, felici ed infelici, io riconobbi come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono. Questi cari esseri sono certo non retti in azioni, non retti in parole, non retti in pensieri, biasimano cio’ che e’ salutare, stimano cio’ che e’ dannoso, fanno cio’ che e’ dannoso; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono giu’, su cattivi sentieri, alla perdizione, in mondo infernale. Quei cari esseri, pero’ sono retti in azioni, parole, pensieri, non biasimano cio’ che e’ salutare, stimano cio’ che e’ retto, fanno cio’ che e’ retto; dopo la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono su buoni sentieri, in mondo celeste. Cosi’ io riconobbi come gli esseri riappaiono sempre secondo le azioni. Questa scienza, o brahmano, io avevo nelle ore medie della notte conquistato per seconda, avevo dissipato l’ignoranza, conseguito la saggezza, dissipata l’oscurita’, conseguita la luce, mentre con serio intendimento, solerte, infaticabile dimoravo. In seguito drizzai l’animo alla cognizione dell’estinguersi degli asava. Questo e’ il dolore; questo e’ l’origine del dolore; questo e’ l’annientamento del dolore; questa e’ la via che conduce all’annientamento del dolore, compresi conforme a verita’. Questo e’ contaminazione mentale; questo e’ l’origine delle contaminazioni mentali; questo e’ l’annientamento delle contaminazioni mentali; questa e’ la via che conduce all’annientamento delle contaminazioni mentali. Cosi’ riconoscendo, cosi’ vedendo, il mio animo fu redento dalla smania del desiderio, dell’esistenza, dell’errore. Nel redento e’ la redenzione: questa cognizione sorse. Esausta e’ la vita, compiuta la santita’, operata l’opera, non esiste piu’ questo mondo, compresi allora. Questa scienza, o brahmano io avevo nella ultime ore della notte conquistata per terza, avevo dissipato l’ignoranza, conseguita la saggezza, dissipata l’oscurita’, conseguita la luce, mentre con serio intendimento, solerte, infaticabile, dimoravo. Ma tu forse, brahmano, potresti ora pensare: anche adesso, pero’, l’asceta Gotamo non e’ del tutto privo di brama, avversione e vanita’; percio’ egli cerca luoghi remoti nel profondo della foresta. Eppure, brahmano, tu non devi intenderla cosi’. Due sono le ragioni che mi fanno cercare luoghi remoti nel profondo della foresta: il mio proprio benessere durante la vita e la compassione per quelli che mi seguono.” “E compassione ha veramente donato il signore Gotamo, come si conviene al Santo, Perfetto Svegliato. Benissimo, o Gotamo, benissimo: Cosi’ come se uno drizzasse cio’ che e’ rovesciato, o scoprisse cio’ che e’ scoperto, o mostrasse la via a chi l’ha persa, o recasse lume nella notte; chi ha occhi vedra’ le cose: cosi’ il signore Gotamo in vari modi ha esposto la dottrina. E cosi’ io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la dottrina e presso i discepoli; quale seguace voglia il signore Gotamo considerarmi, da oggi per tutta la vita fedele.”

I PARTE – 05 INNOCENZA

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anâthapindiko. Là l’onorevole Sâriputto così si rivolse ai monaci: <<Fratelli, nel mondo si trovano quattro specie di uomini: chi è colpevole e non riconosce di esserlo; chi è colpevole e riconosce d’esserlo; chi è innocente e non riconosce d’esserlo; e che è innocente e riconosce, conforme a verità, di non avere colpa. Però il colpevole che non riconosce di essere tale è il peggiore, e l’altro che riconosce d’essere colpevole è il migliore dei due colpevoli. Ugualmente l’innocente che non ammette di esserlo è il peggiore, e l’ innocente che riconosce, secondo verità, di non aver colpa è il migliore dei due innocenti>>. A queste parole l’onorevole Mahâmoggallâno chiese: <<Ma qual è, fratello Sâriputto, la ragione, la causa, che indica chi è il peggiore e chi il migliore tra i due colpevoli e tra i due innocenti?>> <<Se, fratello, un colpevole non riconosce d’esserlo allora c’è da aspettarsi che egli non eserciti la volontà, non lotti, non si sforzi di rimediare alla sua colpa, e invece, carico di brama, di avversione, di errore, di colpa, muoia con cuore non terso. Così come se vi fosse un piatto di bronzo acquistato al mercato o dall’artigiano, pieno di sporcizia e di macchie, e i proprietari non lo usassero né lo pulissero, ma lo gettassero in un angolo: allora, fratello, questo piatto di bronzo diverrebbe di certo più sporco e macchiato di prima. Se invece un colpevole riconosce di esserlo, ci si può aspettare che eserciti la sua volontà, lotti, trovi la forza di rimediare alla sua colpa, e che, senza brama, senza avversione, senza errore e senza più colpa, muoia col cuore terso. Così come se un piatto di bronzo acquistato al mercato, fosse pieno di sporcizia e di macchie, ma i proprietari lo pulissero e lo usassero invece di gettarlo in un angolo: allora, fratello, il piatto diverrebbe di certo lucente e terso>>. <<Certamente, fratello!>> <<Se, fratello, un innocente non si riconoscesse tale, ci si può aspettare che egli si lasci attrarre dallo splendore delle cose, e, attratto da esse, faccia travolgere il suo cuore dalla brama; e poi, carico di brama, di avversione, di errore, di colpa, muoia col cuore non terso. Così come, fratello, se vi fosse un piatto di bronzo, acquistato lucente e terso, ma i proprietari, invece di usarlo o pulirlo lo sbattessero in un angolo: allora, fratello, il piatto dopo qualche tempo diverrebbe di certo sporco e macchiato. Mentre se egli riconoscesse la propria innocenza, ci si potrebbe aspettare che non si farebbe attrarre dallo splendore delle cose, non farebbe travolgere il suo cuore dalla brama, e poi, senza brama, senza avversione, senza errore, senza colpa, muoia col cuore terso. Così come se un piatto di bronzo acquistato, fosse lucente e terso, e i proprietari lo pulissero e lo usassero, senza gettarlo in un angolo: allora, fratello, il piatto diverrebbe anche più lucente e più terso di prima. Questa dunque, fratello Moggallâno, è la ragione, questa è la causa per cui uno dei due ugualmente colpevoli lo si indica come il peggiore e l’altro come il migliore; lo stesso dicasi dei due ugualmente innocenti.<<”La colpa, la colpa”, così si esclama, fratello; ma cosa s’intende propriamente sotto tale concetto?>> <<I perniciosi, dannosi moti dell’animo, fratello, quelli s’intendono sotto il concetto di colpa. E’ possibile che a un monaco venga in mente: “Se ho sbagliato, gli altri non hanno bisogno di saperlo.” Ma se lo vengono a sapere egli s’amareggia e s’ adira. Questa amarezza e quest’ira sono entrambe colpe. E’ possibile che gli venga in mente: “Se ho sbagliato, i fratelli mi devono richiamare in segreto, non davanti agli altri monaci.” Se invece essi lo richiamano pubblicamente, non in segreto, allora egli si amareggia e s’adira. Oppure potrebbe venirgli in mente: “Se ho sbagliato, può ammonirmi un amico, non un altro monaco”. Potrebbero anche venirgli in mente tutte quest’altre cose: “Ah, se il Maestro potesse esporre la dottrina ai monaci mentre dialoga con me, non con un altro monaco.” - “I monaci nell’andare verso il villaggio per l’elemosina dovrebbero mettere alla testa me, non un altro!” - “Oh, se al pasto toccasse a me la migliore sedia, la migliore acqua, il migliore boccone!” Oppure: “Oh, se io solo potessi saziarmi al pasto!” E ancora: “Se i monaci vanno in giardino dovrei essere io e non altri a esporre la dottrina.” - “Se le bhikkhuni, se le monache vanno in giardino dovrei essere io a spiegare la dottrina.” - “Se i seguaci d’ambo i sessi vengono in giardino dovrei essere io a esporre la dottrina.” - “I monaci dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.” - “Le monache dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.” - “I seguaci dovrebbero valutare, pregiare, stimare me solo, non altri.” “A me si dovrebbe far ottenere una veste scelta, non ad altri.” - “A me si dovrebbero dare bocconi scelti, giaciglio scelto, medicine scelte in caso di malattia, e non ad altri.” Se tutti questi pensieri e desideri non si realizzassero e accadesse il contrario, egli si amareggerebbe e si adirerebbe. Questi due moti dell’ animo sono colpe. Un monaco, fratello, presso cui questi perniciosi, dannosi moti dell’animo si mostrano, si manifestano non attenuati, anche se egli fosse un solitario eremita della foresta, un muto mendicante di briciole, se fosse coperto da una veste di stracci da lui rappezzati, non sarebbe dai suoi fratelli dell’ ordine ben considerato, pregiato, stimato, onorato. Così come se vi fosse un piatto di bronzo, lucente e terso, e i proprietari lo riempissero di pezzi di carogna di serpe o di cane o di uomo, lo coprissero con un altro piatto e lo portassero al mercato. E se uno chiedesse cosa esso nasconde, sollevasse il coperchio e guardasse il contenuto provando ripugnanza, nausea e ribrezzo, e persino agli affamati passasse la voglia di mangiare; lo stesso accadrebbe ai suoi fratelli dell’ordine. Un monaco, fratello, presso cui quei perniciosi, dannosi moti dell’animo non si mostrano più, non si manifestano più, anche se fosse un girovago di campagna, che mangia invitato, che è coperto da veste donata, verrebbe dai suoi fratelli dell’ordine altamente valutato, pregiato, stimato e onorato perché in lui quei perniciosi, dannosi moti dell’animo non si mostrano più, non si manifestano più. Come se un piatto di bronzo, lucente e terso fosse riempito dai proprietari con una succosa, ben condita pietanza di riso brillato, bollito, e, copertolo con un altro piatto, lo portassero al mercato. E uno chiedesse cosa nasconde, sollevasse il coperchio e guardasse il contenuto, proverebbe piacere, non nausea, non disgusto, e persino ai sazi verrebbe voglia di mangiare, non dico agli affamati!>> A queste parole si volse l’onorevole Mahâmoggallâno all’onorevole Sâriputto e disse: <<Mi viene un paragone.>> <<Dimmelo, fratello Moggallâno.>> <<Una volta, fratello, io soggiornavo sulla Costa del monte presso Râjagaham. Mi alzai di prima mattina, presi mantello e scodella, e andai alla città per l’ elemosina. Proprio a quell’ora Samiti, il figlio del fabbricante di carri era occupato a piallare una ruota, e Panduputto, un penitente nudo, un sâdhu, che prima era stato fabbricante di carri, gli era vicino. Allora a Panduputto, pratico di quell’attività venne questo pensiero: “Oh, se Samiti piallasse questa scheggia, questa vena, questo nodo; allora la ruota, liberata da tutto ciò, risulterebbe di legno purissimo.” E mentre a Panduputto sorgeva un pensiero dopo l’altro, Samiti, come se lo sentisse, piallava scheggia dopo scheggia, vena dopo vena, nodo dopo nodo. Allora il nudo penitente, antico fabbricante di carri, allegramente commosso esclamò: “Egli pialla come mosso dal cuore!” Ora, fratello, vi sono anche qui persone che malvolentieri, per bisogno e non per fiducia si sono allontanate da casa per ritirarsi nell’eremo, ipocriti, bigotti, santocchi, goffi millantatori, affaccendati ciarloni, cattivi custodi delle porte dei sensi, senza moderazione al pasto, alieni dalla vigilanza, indifferenti all’ ascetismo, negligenti nei doveri dell’ordine, pretenziosi, importuni, che cercano anzitutto compagnia, che schivano la solitudine come grave peso, cuori languidi, deboli, teste confuse, privi di chiarezza, spiriti incostanti, distratti, uomini limitati e ottusi: a questi l’onorevole Sâriputto con la sua esposizione ha piallato come mosso dal cuore. E vi sono anche nobili giovani che mossi da fiducia si sono allontanati da casa per ritirarsi nell’eremo; giovani che sono l’esatto contrario di ciò che ho detto dei primi, e a questi l’esposizione dell’onorevole Sâriputto fu quasi cibo e bevanda per il cuore e per l’orecchio. In modo eccellente, invero, tu hai distolto i fratelli dell’ordine da ciò che è dannoso e li hai rinforzati in ciò che è salutare.Così, in verità, si confortavano reciprocamente quei due grandi con piacevole dialogo.

6 - DESIDERIO PER DESIDERIO - ( AKANKHEYYASUTTAM )

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime a Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko. La’ ora si volse il Sublime ai monaci cosi’: Se un monaco, o monaci, desidera: “Che io sia caro e gradito ai fratelli dell’ordine, sia ritenuto degno e importante; che io abbia vestimenti, nutrimento, giaciglio, e medicine in caso di malattia; a quelli che mi danno vestimenti, nutrimento, giaciglio, e medicine in caso di malattia, questi doni devono portare gran merito, gran bene; i consanguinei defunti, che pensarono a me con amore, debbono per questo avere gran merito, gran bene”; allora egli deve esercitare solo perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, guadagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Se un monaco, o monaci, desidera: “ Voglio essere padrone della malinconia, la malinconia non deve padroneggiarmi, io soggioghero’ vittoriosamente la sorta malinconia; voglio essere padrone dello spavento e del terrore, essi non devono padroneggiarmi, io li soggioghero’ vittoriosamente; che io possa raggiungere, nella loro pienezza e ampiezza le quattro contemplazioni, intime, gia’ in vita beatificanti; quelle sante redenzioni, alte sopra ogni forma, senza forma, io voglio corporalmente riviverle in me; che io possa, dopo l’annientamento dei tre vincoli, giungere alla percezione e, sfuggito al danno, conscio dello scopo, possa affrettarmi verso il pieno risveglio; vorrei, dopo l’annientamento dei tre vincoli, alleggerito di brama, avversione ed errore, quasi gia’ purificato, ritornare solo una volta e, solo una volta ancora a questo mondo venuto, porre fine al dolore; che io possa, dopo l’annientamento dei cinque vincoli, ascendere in alto, per poi di la’ estinguermi, non piu’ tornare a questo mondo”; allora egli deve solo esercitare perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, guadagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Se un monaco, o monaci, desidera: “oh, se mi riuscisse di operare magicamente in varia guisa: essendo uno divenire molteplice, e molteplice tornare ad essere uno; apparire e sparire; attraverso muri, bastioni e rupi librarmi come per l’aria; sulla terra emergere e sommergermi come nell’acqua; sull’acqua camminare senza affondare come sulla terra; per l’aria sedendo allontanarmi come l’uccello coi suoi piccoli; questa luna e questo sole, cosi’ possenti, cosi’ gagliardi, sentire e toccare con mano; anche fino ai mondi di Brahma avere il corpo in mio potere; oh, se con l’orecchio celeste, rischiarato, sopraterreno, io sentissi le due specie di suoni, i celesti ed i terreni, i lontani ed i vicini; oh, se mi fosse concesso di scrutare fino in fondo al cuore e nell’animo degli altri esseri, delle altre persone, e potessi riconoscere il cuore bramoso come bramoso, ed il cuore senza brama come senza brama, il cuore astioso come astioso, ed il cuore senz’astio come senz’astio, il cuore errante come errante, ed il cuore senza errore come tale, il cuore raccolto e quello distratto, il cuore inclinato in alto e quello inclinato in basso, il cuore nobile e quello volgare, il cuore calmo e quello inquieto, il cuore redento e quello avvinto”; se desidera cio’, o monaci, allora egli deve solo esercitare perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, guadagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Se un monaco, o monaci, desidera: “oh, se io fossi in grado di ricordarmi di molte, diverse anteriori forme di esistenza, come di una vita, due vite, tre vite, cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, cento, mille vite, centomila vite, poi delle epoche durante parecchie formazioni e trasformazioni di mondi (la’ ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, quello il mio lavoro, provai tale bene e male, e cosi’ fu la fine di mia vita; di la’ trapassato entrai io di nuovo in esistenza); se io pur fossi in grado di ricordarmi di molte diverse anteriori forme di esistenza, ognuna con i propri contrassegni e relazioni”; se desidera cio’, o monaci, allora egli deve solo esercitare perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, guadagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Se un monaco, o monaci, desidera: “Avessi pur io l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, per vedere come gli esseri scompaiono e riappaiono, volgari e nobili, belli e non, felici ed infelici, e come sempre secondo le azioni riappaiono ( questi cari esseri certo non sono retti in azioni, parole, pensieri, biasimano cio’ che e’ salutare, stimano e fanno cio’ che e’ dannoso; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono su falsa via, su cattivi sentieri, alla perdizione, in mondo infernale; quei cari esseri, pero’, sono retti in azioni, parole, pensieri, non biasimano cio’ che e’ salutare, stimano cio’ che e’ salutare, fanno cio’ che e’ retto; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono su buoni cammini, in mondo celeste); potessi pur io con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, riconoscere come gli esseri scompaiono e riappaiono, volgari e nobili, belli e non, felici e infelici, vedessi io come gli esseri riappaiono sempre secondo le azioni”; se desidera cio’, o monaci, allora egli deve solo esercitare perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, guadagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Se un monaco, o monaci, desidera: “oh, potessi io estinguere la manìa, ed ancora durante la vita rendere a me palese, realizzare e conquistare la redenzione dell’animo senza manìa, redenzione di saggezza”; allora deve egli solo esercitare perfetta virtu’, conquistare intima tranquillita’ di spirito, non riluttare alla contemplazione, gudagnare penetrante sguardo, essere amico di vuoti eremi. Serbate virtu’, o monaci, serbate purezza; coltivando e curando purezza, serbatevi forti nell’agire e nel vivere; in guardia sul minimo fallo procedete con costanza oltre, passo per passo: se questo fu detto, percio’ fu detto. Cosi’ parlo’ il Sublime: contenti si rallegrarono quei monaci della Sua parola.

I PARTE – 07 – INNOCENZA

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anâthapindiko. Là il Sublime si rivolse ai monaci: <<Monaci, se un tintore prendesse una veste sudicia e piena di macchie, e la immergesse in una tintura, non importa quale, azzurra, gialla, rossa o violetta, essa potrebbe prendere solo una tinta brutta e impura perché la veste non è pulita. Allo stesso modo da un cuore immondo c’è da aspettarsi una cattiva riuscita. Se invece il tintore prendesse una veste netta e pura, essa potrebbe prendere solo una tinta buona e pura. Allo stesso modo da un cuore non immondo c’è da aspettarsi una buona riuscita. Ora, monaci, cos’è il turbamento del cuore? Esso è dannoso egoismo, malvagità, abiezione, ipocrisia, invidia, gelosia, interesse, frode, malizia, ostinazione, violenza, presunzione, superbia, negligenza e leggerezza. Ora, un monaco che abbia riconosciuto tutte queste cose, le rinnega, e se ciò accade allora è provato e proclamato il suo amore per lo Svegliato in questo modo: “Questo è il Sublime, il Santo, il perfetto Svegliato, l’Esperto di sapienza e di vita, il Benvenuto, il Conoscitore del mondo, l’incomparabile Guida dell’umano gregge, il Maestro degli dei e degli uomini”; è provato il suo amore alla dottrina: “Bene annunziata è dal Sublime la dottrina evidente, senza tempo, incitante, invitante, ad ogni intelligente intelleggibile”; è provato il suo amore ai discepoli: “L’ordine, il Sangha, è, presso il Sublime, bene, degnamente, rettamente, convenientemente affidato, quattro paia di uomini, otto specie di uomini [?]: questo è l’ordine del Sublime, che merita devozione e doni, elemosina e saluto, che è la più santa sede del mondo”. Il detto monaco ha però abbandonato, smesso, disciolto, rinnegato e rigettato il riguardo: conosce il distacco da tutto [?]. “Il mio amore per lo Svegliato, per la dottrina e per i discepoli è provato”: così egli acquista la comprensione del senso, la comprensione della dottrina, l’intelligente deliziarsi della dottrina. Tale delizia lo rende beato. Il corpo del beato si calma. Il calmo prova fisica serenità. Il cuore del sereno prova raccoglimento. Ora un monaco che possiede tale virtù, tale dottrina, tale sapienza, può anche godere cibo mendicato che sia fatto di riso scelto, ben saporito e condito, e ciò non lo danneggia. Così come una veste sudicia e piena di macchie, lavata in acqua chiara diviene nitida e tersa, oppure l’oro fuso nel crogiolo diventa schietto e puro; così pure un monaco che possiede tale virtù, tale dottrina, tale sapienza, può anche godere cibo mendicato. Rimanendo con animo amorevole egli irradia in tutte le direzioni, nord, sud, est, ovest, zenit e nadir, dappertutto riconoscendosi, il mondo intero amorevolmente, con ampio, profondo, illimitato animo, schiarito da rabbia e rancore. Lo stesso egli fa con animo compassionevole, con animo lieto, con animo immoto. “Così è”, egli comprende; “Vi è ciò che è volgare e vi è ciò che è nobile, e vi è una libertà più alta di questa percepita dai sensi”. E in tale contemplazione, in tale visione il suo cuore viene redento dalla mania del desiderio, dalla mania dell’esistenza, dalla mania dell’errore. Sorge in lui questa conoscenza: “Nel redento è la redenzione”. Comprende allora: “Esaurita è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo”. Questo si chiama, monaci, un monaco purificato nell’intimo.>>In quel frattempo si era avvicinato al Sublime il brâhmano Sundariko Bhâradvâjo che si rivolse a lui chiedendo: “Va forse il signore Gotamo a bagnarsi nella Bâhukâ?>> <<Che c’è, brâhmano, che c’entra la Bâhukâ?>> <<Si crede, Gotamo, che essa purifichi, che essa santifichi, che nelle sue onde si lavino le proprie colpe.>> Allora il Sublime si volse verso il brâhmano Sundariko Bhâradvâjo e recitò questi versi:<<La Bâhukâ, l’Adhikâ, la Gayâ, Anche la Sundarî e Sarassatî, E la corrente del Payâgo fluido, E di Bâhumatî veloce il fiume, Non lavano giammai lo scellerato, Se anch’uno si lavasse in ogni tempo. Che gioverebbe mai la Sundarî, O l’onda del Payâgo o la Gayâ? Già l’acqua mai deterge dai suoi falli Chi passo passo va per falsa strada. Al giusto sempre ride lieto maggio, Al giusto sempiterno è dì di festa, Al giusto, a lui, che valoroso vive, Adempito vien sempre il suo desir.Bàgnati dunque, o brâhmano, sol qui: Per tutto ciò che vive abbi pietà.E se rinunzia hai fatto alla menzogna, Se non offendi più vivente alcuno, E più non prendi ciò che non è dato, Nella rinunzia ognora sei costante, A che verrai più mai alla Gayâ? Fiumana la Gayâ, non altro è a te.>>Dopo queste parole il brâhmano Sundariko Bhâradvâjo disse al Sublime: “Benissimo, Gotamo, benissimo! Così come quasi, Gotamo, se uno raddrizzasse ciò che è rovesciato, o scoprisse ciò che è coperto, o mostrasse la via a chi s’è perso, o portasse lume nella notte: “Chi ha occhi vedrà le cose”: così anche appunto il signore Gotamo in vari modi ha esposto la dottrina. Anche io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la Dottrina e presso l’Ordine. Voglia il signore Gotamo concedermi accoglienza, conferirmi l’ordinazione.” E il brâhmano Sundariko Bhâradvâjo venne accolto dal Sublime, venne investito dell’ordinazione. Ma non molto dopo che era stato accolto nell’ordine, egli, solitario, appartato, infaticabile, con fervido, intimo sforzo aveva rapidamente, ancora durante la vita, scoperto, realizzato e raggiunto quell’altissimo scopo dell’ascetismo che porta i nobili figli dalla casa all’eremo. “Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo”, egli comprese allora. Anche l’onorevole Bhâradvâjo era adesso divenuto uno dei santi.

8 PRATICA* ( SALLEKKASUTTAM )

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Savatthi, nella selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko. Ora, quando l’onorevole Mahacundo verso sera ebbe finito la meditazione, si reco’ dal Sublime, saluto’ reverentemente, si sedette accanto e gli parlo’ cosi’: “ Delle molte diverse dottrine, o Signore, che sorgono nel mondo e che si occupano ora dell’esame di se stessi, ora dell’esame del mondo, basta forse che un monaco ne conosca solo il principio, per rigettarle, per rifiutarle?” “ Delle molte diverse dottrine, Cundo, da per tutto esse spuntano, sorgono, appaiono, vale sempre il savio giudizio, conforme alla verita’: “Cio’ non mi appartiene, cio’ non sono io, cio’ non e’ me stesso”: cosi’ esse vengono rigettate, rifiutate. Puo’ darsi, Cundo, che un monaco, lungi da brame, da cose non salutari, abbia raggiunto la senziente, pensante, nata di pace beata serenita’, la prima contemplazione, ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’, Cundo, nell’ordine del Santo, non si chiama pratica; si chiama visibile bene. Puo’ darsi, Cundo, che un monaco abbia raggiunto l’interna calma, l’unita’ dell’animo, la libera di sentire e pensare, nata dal raccoglimento beata serenita’, la seconda contemplazione, ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama visibile bene. Puo’ darsi, Cundo, che un monaco resti in serena pace, equanime, savio, chiaro e cosciente, e provi nel suo corpo quella felicita’ di cui i probi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’; e cosi’ egli abbia raggiunto la terza contemplazione ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’, Cundo, non si chiama pratica; si chiama visibile bene. Puo’ darsi che un monaco, dopo rigetto delle gioie e dei dolori, dopo annientamento della letizia e tristezza anteriori, abbia raggiunto la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione, ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama visibile bene. Puo’ darsi che un monaco, dopo aver completamente superato le percezioni di forma, annientato le percezioni riflesse, rigettato le percezioni di molteplicita’, nel pensiero ‘senza limiti e’ lo spazio’ abbia raggiunto il regno dello spazio illimitato ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama beata pace. Puo’ darsi che un monaco, dopo aver completamente superato l’illimitata sfera dello spazio, nel pensiero ‘senza limiti e’ la coscienza’ abbia raggiunto il regno della coscienza illimitata ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama beata pace. Puo’ darsi che un monaco, dopo aver superato l’illimitata sfera della coscienza, nel pensiero ‘niente esiste’, abbia raggiunto la sfera della non esistenza, ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama beata pace. Puo’ darsi che un monaco, dopo aver completamente superato la sfera della non esistenza, abbia raggiunto il limite di possibile percezione, ed ora pensi: ‘io sto praticando’. Ma cio’ non si chiama pratica; si chiama beata pace. Invece e’ qui, o Cundo, che voi dovete praticare: ‘Gli altri andranno in furore, noi no. Gli altri toglieranno la vita, noi no. Gli altri prenderanno quel che non e’ dato, noi no. Gli altri vivranno non casti, noi casti. Gli altri mentiranno, noi no. Gli altri avranno segrete parole, noi no. Gli altri useranno aspre parole, noi no. Gli altri coltiveranno vane parole, noi no. Gli altri saranno bramosi, noi no. Gli altri saranno astiosi, noi no. Gli altri coltiveranno falsa cognizione, noi retta cognizione. Gli altri coltiveranno falsa intenzione, noi retta intenzione. Gli altri coltiveranno falsa parola, noi retta parola. Gli altri coltiveranno falsa azione, noi retta azione. Gli altri coltiveranno falsa vita, noi retta vita. Gli altri coltiveranno falso sforzo, noi retto sforzo. Gli altri coltiveranno falso sapere, noi retto sapere. Gli altri coltiveranno falso raccoglimento, noi retto raccoglimento. Gli altri coltiveranno falsa sapienza, noi retta sapienza. Gli altri coltiveranno falsa redenzione, noi retta redenzione. Gli altri si faranno sedurre da accidiosa pigrizia, noi fugheremo l’accidiosa pigrizia. Gli altri si impettiranno, ma noi rimarremo modesti. Gli altri tentenneranno di qua e di la’, ma noi saremo sicuri del fatto nostro. Gli altri si irriteranno, ma noi non ci irriteremo. Gli altri saranno discordi, ma noi saremo concordi. Gli altri simuleranno, ma noi non simuleremo. Gli altri invidieranno, ma noi non invidieremo. Gli altri si appassioneranno, ma noi non ci appassioneremo. Gli altri saranno egoisti, ma noi non saremo egoisti. Gli altri saranno astuti, ma noi non saremo astuti. Gli altri saranno ipocriti, ma noi non saremo ipocriti. Gli altri saranno ostinati, ma noi non saremo ostinati. Gli altri saranno vani, ma noi non saremo vani. Gli altri saranno violenti, ma noi rimarremo pacati. Gli altri saranno amici di cio’ che e’ dannoso, ma noi rimarremo amici di cio’ che e’ salutare. Gli altri si rilasceranno, ma noi saremo instancabili. Gli altri saranno diffidenti, ma noi saremo fiduciosi. Gli altri saranno spudorati, ma noi avremo pudore. Gli altri saranno senza coscienza, ma noi saremo coscienziosi. Gli altri saranno inesperti, ma noi saremo molto esperti. Gli altri cederanno, ma noi persisteremo. Agli altri si intorbidira’ la mente, ma a noi la mente restera’ serena. Gli altri saranno stolti, ma noi savi. Gli altri avranno interesse solo per cio’ che e’ innanzi agli occhi, afferreranno con ambo le mani, difficilmente si faranno distogliere; ma noi non avremo interesse solo per cio’ che e’ innanzi agli occhi, non afferreremo con ambo le mani, facilmente ci faremo distogliere. Su tutti questi comportamenti noi eserciteremo la pratica. La risoluzione dell’animo al bene io chiamo importante; che dire poi dei precetti del fare e del dire! Percio’ Cundo, bisogna produrre queste decisioni dell’animo: gli altri andranno in collera, ma noi non vogliamo; gli altri si condurranno non rettamente, ma noi vogliamo condurci rettamente; gli altri avranno interesse solo per cio’ che e’ davanti agli occhi, afferreranno con ambo le mani, difficilmente si faranno distogliere; ma noi non vogliamo avere interesse solo per cio’ che e’ innanzi agli occhi, non afferrare con ambo le mani, facilmente farci distogliere; queste decisioni dell’animo bisogna produrre. Cosi’ come se vi fosse una via impraticabile ma un’altra le girasse attorno; o come se vi fosse un guado impraticabile ma un altro gli girasse attorno; alla stessa stregua chi inclina alla violenza puo’ voltare per il sentiero della mitezza; chi inclina per il non retto cammino, puo’ voltare per il retto cammino; chi ha basso interesse, afferra con ambo le mani, difficilmente si fa distogliere, puo’ voltare per il sentiero del superiore interesse, del decoro, della calma. Cosi’ come tutto cio’ che e’ dannoso conduce ad inferiore esistenza e tutto cio’ che e’ salutare conduce ad esistenza superiore; alla stessa stregua, chi inclina alla violenza puo’ con la mitezza guadagnare superiore esistenza; chi inclina al non retto cammino, puo’ col retto cammino guadagnare superiore esistenza; chi ha basso interesse, afferra con ambo le mani, difficilmente si fa distogliere, puo’ con superiore interesse, decoro e calma guadagnare superiore esistenza. Ma che uno, Cundo, essendo egli stesso impantanato, possa trarre fuori un altro dal pantano: questo non e’ possibile. Ma che uno, non essendo egli stesso impantanato, possa trarre fuori un altro dal pantano: questo e’ possibile. Ma che uno, essendo egli stesso non frenato, non annientato, non completamente estinto, possa condurre un altro al frenamento, all’annientamento, alla completa estinzione: questo non e’ possibile. E che uno, essendo egli stesso frenato, annientato, completamente estinto, possa condurre un altro al frenamento, all’annientamento, alla completa estinzione: questo e’ possibile. Il violento con la mitezza puo’ giungere alla completa estinzione; e cosi’ il sanguinario superando la sete di sangue; il ladro astenendosi dal furto; il non casto con la castita’; il bugiardo astenendosi dalla menzogna; il malizioso superando la malizia; l’aspro superando l’asprezza; il loquace superando la loquacita’; l’astioso superando l’astio; il falso conoscente con la retta cognizione; il falso intenzionato con la retta intenzione; il falso parlante con la retta parola; il falso agente con il retto agire; il falso vivente con retta vita; il falso sforzantesi con retto sforzo; il falso savio con retta saviezza; il falso raccolto con retto raccoglimento; il falso sapiente con retto sapere; il falso redento con retta redenzione; il sedotto da accidiosa pigrizia superando l’accidiosa pigrizia; il superbo con l’umilta’; il dubbioso con la fermezza; il collerico con la mancanza di collera; il discorde con la concordia; il simulatore con la sincerita’; l’invidioso abbandonando l’invidia; l’appassionato con la mancanza di brame; l’egoista con la rinunzia all’egoismo; l’astuto con la lealta’; l’ipocrita con la franchezza; l’ostinato con la condiscendenza; l’impetuoso con la dolcezza; chi e’ inclinato a cio’ che e’ dannoso con l’inclinazione a cio’ che e’ salutare; l’indolente con l’instancabilita’; il diffidente con la fiducia; l’impudente col pudore; chi e’ senza coscienza con la coscienziosita’; l’inesperto con l’esperienza; il cedevole con la persistenza; l’intorbidato di mente con il rischiararsi della mente; lo stolto con la sapienza; chi nutre basso interesse, afferra con ambo le mani, difficilmente si fa distogliere, tramite superiore interesse, decoro e calma puo’ giungere alla completa estinzione. E cosi’, Cundo, io ho mostrato la maniera della pratica, della decisione dell’animo, del rivolgimento, della superiore esistenza, della completa estinzione. Cio’ che un maestro, per amore e simpatia, mosso da compassione, deve ai discepoli, questo avete ricevuto voi da me. Qua invitano alberi, la’ vuoti eremi. Operate contemplazione, Cundo, perche’ non diveniate negligenti e non proviate poi rimorso: ritenete questo come nostro precetto. Cosi’ parlo’ il Sublime: contento si rallegro’ l’onorevole Mahacuto della parola del Sublime. De Lorenzo usa il termine discarico ( operare discarico; io sto operando discarico ecc. )

M.I PARTE – 09 LA RETTA CONOSCENZA. (SAMMÂDITTHISUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthi, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anâtapindiko. Là l’onorevole Sâriputto si rivolse così ai monaci: <<”La retta conoscenza, la retta conoscenza”, di questo si parla, fratelli. Ma fino a che punto un nobile uditore ha la retta conoscenza, la sua conoscenza è giusta, il suo amore alla dottrina provato ed egli appartiene a questa nobile dottrina?>> <<Verremmo dall’onorevole Sâriputto persino da lontano per avere su ciò un chiarimento: se egli vorrà spiegare ciò i monaci conserveranno le sue parole.>> <<Allora, fratelli, ascoltate con attenzione. Se il nobile uditore conosce ciò che è dannoso e ne conosce la radice, egli ha retta conoscenza, la sua conoscenza è giusta, il suo amore per la dottrina è provato, egli appartiene a questa nobile dottrina. Ma cos’è dannoso, cos’è la radice del dannoso, cos’è salutare e qual è la radice del salutare? Uccidere è dannoso e tutte quest’altre cose sono dannose: rubare, darsi a stravizi, mentire, dire male, parlare aspramente, ciarlare, bramare, infuriarsi, avere falsa conoscenza. La radice di ciò che è dannoso poi sono la brama, l’avversione e l’errore. E cosa è salutare? Astenersi da tutte le cose dannose. E qual è la radice del salutare? Mancanza di brama, di avversione e di errore è la radice del salutare. Se ora il nobile uditore conosce ciò che è dannoso, ciò che è la radice di quello, ciò che è salutare e ciò che è la radice del salutare, e se ha completamente rinnegata l’agitazione del bramare, fugata quella della ripugnanza, schiantata l’agitazione dell’Io, se ha perduta l’ignoranza e acquistata la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore.>> <<Bene, fratello, ma vi è anche un altro modo per il nobile uditore per raggiungere tutto ciò?>> <<Certo, fratelli, se l’uditore conosce il nutrimento e l’origine del nutrimento, conosce la sua distruzione e la via che conduce alla distruzione del nutrimento, egli ha retta conoscenza, giusta conoscenza, il suo amore per la dottrina è provato, egli appartiene a questa nobile dottrina. Ma che cos’è il nutrimento, qual è la sua origine, come lo si distrugge e qual è la via che conduce a ciò? Vi sono quattro specie di nutrimento: primo, cibo elementare, grosso o fino; secondo, contatto fisico; terzo, percezione spirituale; quarto, coscienza. L’origine della sete di vivere determina l’ origine del nutrimento; la sua distruzione determina la distruzione del nutrimento. La via che conduce a ciò è il nobile sentiero ottopartito, cioè: retti conoscenza, intenzione, parola, azione, vita, sforzo, sapere, raccoglimento. Se ora il nobile uditore conosce il nutrimento, la sua origine, la sua distruzione e la via che conduce a ciò, e ha completamente vinto la brama e l’avversione, se ha schiantata l’agitazione dell’Io, se ha perduto l’ ignoranza e acquistato la sapienza, egli già in questa vita mette fine al dolore.>> <<Bene, fratello, ma vi è ancora un altro modo per il nobile uditore per raggiungere tutto ciò?>> <<Certamente, fratelli. Se egli conosce il dolore, l’origine del dolore, l’ annientamento del dolore e la via che conduce a ciò, egli ha la conoscenza giusta, è provato il suo amore alla dottrina ed egli appartiene ad essa. Ma cos’è il dolore, qual è la sua origine, cos’è il suo annientamento, e cosa la via che porta all’annientamento del dolore? Nascita è dolore, vecchiaia è dolore, lo è la malattia, lo è il morire e così pure sono dolore i guai, l ‘afflizione, la pena, lo strazio, la disperazione, non ottenere ciò che si desidera.; in breve, sono dolore i cinque elementi dell’attaccamento alla vita. E qual è l’origine del dolore? E’ questa sete di vivere, che produce nuova esistenza, alimentata dalla soddisfazione che si nutre qua e là; è l’ attaccamento al sesso, l’attaccamento all’esistenza e al benessere. E l’ annientamento del dolore? E’ il completo, totale annientamento, allontanamento, respingimento; è la soppressione, il rinnegamento di questa sete di vivere. Ma qual è la via che porta all’annientamento del dolore? E ‘ questo nobile ottuplice sentiero, cioè: retti conoscenza, intenzione, parola, azione, vita, sforzo, sapere, raccoglimento. Se ora il nobile uditore conosce tutto ciò, e più non brama, più non ha repulsione, ed ha schiantato il turbamento dell’Io, se, perduta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore.>> <<Bene, fratello! Ma vi è forse anche un altro modo?>> <<Certo, fratelli. Se il nobile uditore conosce vecchiaia e morte,(jarâ-marana), e la loro origine; se ne conosce l’annientamento e la via che a ciò conduce, allora egli ha retta e giusta conoscenza. Ma cosa sono la vecchiaia e la morte, qual è il loro annientamento e qual è la via che lo consente? Vecchiaia è per ognuno il consumarsi del corpo, il divenire fragili, grigi, pieni di rughe, il decadere delle forze, l’ appassire dei sensi. (chiedete a Pam. ;-) E la morte? E’ il disfarsi, il dissolversi, il decomporsi, il tramontare, l’estinguersi di ciascun essere, il separarsi degli elementi, il putrefarsi del cadavere. L’origine della nascita (jâti) determina l’origine della vecchiaia e della morte, l’ annientamento della nascita prova il loro annientamento. E la via che porta a ciò è il nobile ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io, se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è la nascita, la sua origine, il suo annientamento e la via che porta al suo annientamento? Nascita, formazione, germinazione, concepimento di ciascun corpo in ogni essere, l’aggregarsi degli elementi, l’entrare in contatto col mondo esterno: questo è la nascita. L’origine dell’esistenza (bhava) determina l’origine della nascita, il suo annientamento produce l’ annientamento dell’altra. E la via che porta a ciò è il nobile sentiero ottopartito. Se ora il nobile uditore conosce tutto ciò, e più non brama, più non ha repulsione, ed ha schiantato il turbamento dell’Io; se, perduta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è l’esistenza, qual è la sua origine, qual è il suo annientamento e quale la via che conduce a ciò? Vi sono tre specie di esistenza, fratelli: esistenza sessuale, esistenza formale ed esistenza senza forma. L’origine dell’attaccamento alla vita (upâdâna) determina l’origine dell’esistenza, e il suo annientamento provoca l’annientamento dell’altra. E la via che conduce a ciò è il nobile sentiero ottopartito. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è l’attaccamento alla vita, da cosa è originato, cos’è il suo annientamento, e qual è la via che provoca il suo annientamento? Ci sono quattro specie di attaccamento alla vita: attaccamento alla sessualità, alla multiscienza (i Veda), all’ascesi come scopo a se stessa, l’attaccamento al perdurare personale. L’origine della sete di vivere (tanhâ) determina l’ attaccamento alla vita, e il suo annientamento determina l’annientarsi dell’ attaccamento alla vita. E la via che conduce a ciò è il nobile ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è la sete di vivere, qual è la sua origine e la sua distruzione, e quale la via da percorrere? Vi sono sei specie di sete di vivere: sete delle forme, dei suoni, degli odori, dei sapori, dei contatti e delle cose. L’origine della sensazione (vedanâ) determina l’origine della sete di vivere, il suo annientamento ne determina l’annientamento, e la via che vi conduce è il nobile ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma che è la sensazione, da cosa origina, cosa la distrugge e qual è la via che lo consente? Vi sono sei specie di sensazioni: sensazioni prodotte da contatto visivo, uditivo, olfattivo, gustativo, tattile, intellettivo. L’ origine del contatto (phassa) determina l’origine della sensazione, il suo annientamento determina quello della sensazione. E la via che conduce a ciò è il nobile santiero ottopartito. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall ‘Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è il contatto, da che è originato, cosa lo annienta e qual è la via per annientarlo? Vi sono sei specie di contatti: quelli legati ai rispettivi sei sensi compreso quello mentale. L’origine della sestupla sede (salâyâtâna) determina l’origine del contatto, e il suo annientamento annienta il contatto. E la via per annientarla è il nobile sentiero ottuplice. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è la sestupla sede, cosa la origina, cosa l’annienta e quale via conduce a ciò? Vi sono sei sedi dei sensi compresa la sede del senso del pensiero. L’origine di immagine e concetto, di nome e forma (nâma-rûpa) determina l’origine delle sei sedi dei sensi, la sua distruzione conduce alla loro distruzione, e la via che conduce a ciò è l’ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è immagine e concetto, cosa ne è l’origine, cosa produce il suo annullamento e con quale via lo si ottiene? Per concetto si intende la sensazione, la percezione, la comprensione e la riflessione. Le quattro materie principali e ciò che esiste come forma di esse è ciò che si chiama immagine. L’origine della coscienza (viññana) determina l’origine di immagine e concetto, il suo annientamento ne determina l’annientamento. E la via che conduce a ciò è l’ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è la coscienza, qual è la sua origine, cosa l’annienta e quale via porta a ciò? Vi sono sei specie di coscienza che coinvolgono i sei sensi compreso quello mentale. L’origine delle distinzioni che predispongono (samkhâra) determina l’origine della coscienza, il loro annientamento annienta la coscienza. E la via che conduce a ciò è il sentiero ottopartito. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cosa sono le distinzioni, qual è la loro origine, come annientarle e qual è la via per farlo? Vi sono tre specie di distinzioni: quella fisica, quella verbale e quella spirituale. L’origine dell’ignoranza (avijjâ) è ciò che determina l’origine delle distinzioni, il suo annientamento le annienta, e la via che permette ciò è il nobile ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è l’ignoranza, cosa la origina, cosa la distrugge, e quale via lo consente? Non conoscere il dolore (dukkha), non conoscerne l’origine, non conoscere come annientarlo, e non conoscere la via che lo permette; ciò, fratelli, si chiama ignoranza. L’origine della mania (âsava) determina l’ origine dell’ignoranza, il suo annientamento ne determina l’annientamento. E la via che conduce a ciò è il nobile ottuplice sentiero. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce tutto ciò, ed è lontano da brama, repulsione, non è più turbato dall’Io; se, vinta l’ignoranza, ha acquistato la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Ma cos’è la mania, qual è l’origine della mania, cos’è l’annientamento della mania, qual è la via che porta all’annientamento della mania? Vi sono tre specie di mania, fratelli: mania di desiderio (kâma-âsava), mania d’ esistenza (bhava-âsava), mania d’ignoranza (avijjâ-âsava). L’origine dell’ ignoranza determina l’origine della mania, l’annientamento dell’ignoranza determina l’annientamento della mania. Ma la via che conduce all’ annientamento della mania è il nobile ottuplice sentiero, cioè: retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento. Se ora, fratelli, il nobile uditore conosce così la mania, così la sua origine, così il suo annientamento, così la via che conduce al suo annientamento, e ha completamente rinnegata l’agitazione del bramare, fugata l’agitazione del respingere, schiantata l’agitazione dell’Io; se ha perduta l’ignoranza, acquistata la sapienza, allora egli già in questa vita mette fine al dolore. Pertanto, fratelli, un nobile uditore ha la retta conoscenza, la sua conoscenza è giusta, il suo amore alla dottrina provato, egli appartiene a questa nobile dottrina.>>Così parlò l’onorevole Sâriputto. Contenti si rallegrarono quei monaci per la sua parola.

I PARTE – 10 - I PILASTRI DEL SAPERE (SATIPATTÂNASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava nella terra dei Kurû, presso la città dei Kurûni detta Kammâsadamman (1). Là il Sublime si rivolse ai monaci: <<La diritta via, monaci, che conduce alla purificazione degli esseri, al superamento del dolore e della miseria, alla distruzione della sofferenza e della pena, al conseguimento di ciò che è giusto, alla realizzazione dell’estinzione, è data dai quattro pilastri del sapere. Ecco che un monaco vigila presso il corpo sul corpo, instancabile, con chiara mente, sapiente, dopo aver superato le brame e le cure del mondo; allo stesso modo vigila presso le sensazioni sulle sensazioni; presso l’animo sull’animo; presso i fenomeni sui fenomeni. E come lo fa? Un monaco si reca all’interno della foresta, o sotto un grande albero, o in un vuoto eremo, si siede con le gambe incrociate, il corpo diritto, e si esercita nel sapere. Cosciente egli inspira, cosciente espira. Se inspira profondamente egli lo sa; se inspira brevemente, egli ne è consapevole. “Voglio inspirare sentendo tutto il corpo”, “Voglio espirare sentendo tutto il corpo”, “Voglio inspirare calmando questa combinazione corporea”, “Voglio espirare calmando questa combinazione corporea”; così egli si esercita. Così come un abile tornitore o garzone tornitore tirando fortemente sa “Io tiro fortemente”, tirando lentamente sa “Io tiro lentamente”: così accade al monaco allorché inspira ed espira. Così egli vigila presso il corpo interno sul corpo, presso il corpo esterno sul corpo, di dentro e di fuori egli vigila presso il corpo sul corpo. Egli osserva come il corpo si forma, come esso trapassa; osserva come il corpo si forma e come trapassa. “Ecco com’è il corpo”: tale sapere diviene il suo sostegno perché esso serve alla comprensione, alla riflessione; ed egli vive indipendente e non desidera nulla dal mondo. E ancora: il monaco, quando cammina, sa che lo sta facendo; lo stesso quando è fermo; così pure quando è seduto e quando giace; egli sa in quale posizione si trova, qualsiasi essa sia. E ancora: il monaco è chiaramente consapevole nel venire e nell’andare; nel guardare e nel distogliere lo sguardo; nel chinarsi e nel sollevarsi; nel portare l’abito e la scodella dell’elemosina; nel mangiare e nel bere; nel masticare e gustare; nel liberarsi dalle feci e dall’urina; nel camminare o nello stare seduto; nell’addormentarsi e nel risvegliarsi, nel parlare e nel tacere. E inoltre: il monaco esamina questo corpo dalla cima della testa alle piante dei piedi, la pelle che lo ricopre e come esso è ripieno di varie impurità: “Questo corpo ha capelli, peli, ha unghie e denti, pelle e carne, tendini, ossa e midollo, reni, cuore e fegato, diaframma, milza, polmoni, stomaco, intestini, mucose e feci, ha bile, secrezioni, marciume, sangue, sudore, linfa, lacrime, siero, saliva, muco, liquido articolare, urina”. Così come se vi fosse un sacco legato ai due capi, pieno di diversi cereali: riso, fave, sesamo; e un uomo competente lo slegasse e ne esaminasse il contenuto: “Questo è riso, queste sono fave, questo è sesamo”: allo stesso modo appunto un monaco esamina questo corpo in tutti i particolari. E ancora: il monaco esamina questo corpo, sia che vada o che stia, specificando: “Questo corpo ha la specie ‘terra’, ha la specie ‘acqua’, la specie ‘fuoco’ e la specie ‘aria’. Così come se un abile macellaio o un garzone macellaio, avendo macellata una vacca, la porta al mercato, la seziona pezzo per pezzo, ne espone le varie parti, le conosce, le osserva, le esamina bene e quindi si siede (2): proprio così un monaco considera questo corpo. E inoltre ancora, monaci: come se il monaco avendo visto un corpo che giace al cimitero, un giorno, due o tre giorni dopo la morte, gonfio, illividito, divenuto putrefatto, concludesse: “Anche il mio corpo è fatto così, diventerà così, non può sfuggire a ciò”. E ancora: come se il monaco avendo visto al cimitero un corpo straziato da cornacchie, corvi o avvoltoi, sbranato da cani e sciacalli, roso da molte specie di vermi, concludesse: “Tutto ciò può accadere anche a me”. E inoltre: come se il monaco avendo visto al cimitero uno scheletro con brani di carne, sporco di sangue, tenuto assieme dai tendini; o più tardi, uno scheletro privo di carne, sporco di sangue, tenuto assieme dai tendini; e più tardi ancora le ossa, senza i tendini, sparse qua e là; qua un osso della mano, là un osso del piede, una tibia, un femore, il bacino, delle vertebre, il cranio, concludesse: “Anche il mio corpo è fatto così, diventerà così, non può sfuggire a ciò”. E ancora: come se il monaco avendo visto le ossa, sbiancate come conchiglie, le ossa sfatte, ammucchiate dopo che è trascorso un anno; le ossa corrotte, divenute polvere, concludesse: “Tutto ciò accadrà anche a me”. Così egli vigila sul corpo interno, vigila sul corpo esterno, vigila sul corpo interno ed esterno. Ma come vigila un monaco sulle sensazioni? Un monaco, quando prova una sensazione piacevole, ne è consapevole; lo stesso quando prova una sensazione dolorosa o una sensazione né piacevole né dolorosa. Quando prova una sensazione piacevole mondana, se ne rende conto, e altrettanto quando si tratta di una sensazione piacevole trascendente, di una sensazione dolorosa mondana o trascendente, di una sensazione neutra mondana o trascendente. Così egli vigila sulle sensazioni, osserva come la sensazione si forma, come passa, e come si forma e passa. “Ecco cos’è la sensazione”: tale sapere diviene il suo sostegno perché gli serve per conoscere, per riflettere; ed egli vive indipendente e senza brama del mondo. Ma come vigila un monaco presso l’animo e sull’animo? Un monaco conosce l’ animo bramoso e l’animo non bramoso, quello astioso e quello non astioso, l’ animo che erra e quello senza errore, quello raccolto e quello che non lo è, l’animo distratto, l’animo tendente all’alto sentire e quello tendente al basso sentire, l’animo nobile, quello volgare, l’animo tranquillo, quello inquieto, l’animo redento e l’animo vincolato; e di tutti si rende conto. Egli osserva come l’animo si forma, come trapassa, come si forma e trapassa. “Ecco com’è l’animo”: tale sapere diviene il suo sostegno perché esso serve alla conoscenza, alla riflessione; ed egli vive indipendente e senza brama del mondo. Ma come vigila un monaco presso i fenomeni sui fenomeni? Un monaco osserva sui fenomeni il manifestarsi dei cinque ostacoli (nîvarana): osserva quando la brama (kâmacchanda) è in lui e quando non lo è; osserva quando in lui vi è avversione (vyâpâda); quando vi è accidia (thîna-middha); quando vi è superbia ( o agitazione-ansia = uddhacca-kukkucca); quando vi è dubbio (vicikicchâ), e quando essi non vi sono. E per ognuno dei cinque ostacoli osserva come comincia a svilupparsi; osserva come quando divenuto evidente viene rinnegato, e osserva quando gli ostacoli, rinnegati, non compaiono più nell’avvenire. “Ecco i fenomeni”: tale sapere diviene il suo sostegno perché esso serve alla conoscenza, alla riflessione; ed egli vive indipendente e senza brama del mondo. Ma come vigila un monaco presso i fenomeni sul manifestarsi dei cinque tronchi dell’attaccamento? Un monaco dice a se stesso: “Così è la forma (rûpa), così è la sensazione (vedanâ), così è la percezione (saññâ), così sono le distinzioni (sankhâra), così è la coscienza (viññâna) ; così esse hanno origine, così esse si dissolvono. E inoltre il monaco vigila presso i fenomeni sul manifestarsi dei sei regni interni-esterni (sal-âyatana). Come? Un monaco conosce l’occhio e conosce le forme; conosce l’orecchio e conosce i suoni; conosce il naso e conosce gli odori; conosce la lingua e conosce i sapori; conosce il corpo e conosce i contatti; conosce il pensiero e conosce le idee. Conosce come essi si combinano e cosa ne risulta; conosce quando la combinazione avviene, quando essa cessa, e quando la cessata combinazione non si verifica più nell’ avvenire. E inoltre il monaco vigila presso i fenomeni sul manifestarsi dei sette fattori di risveglio (sambojjhanga). Come? Un monaco s’accorge quando sono in lui la consapevolezza (sati), il raccoglimento (l’esame dei fenomeni = dhammavicaya), la forza (viriya), la serenità gioiosa (pîti), la calma (passaddhi), la concentrazione (samâdhi), l’equanimità (upekkhâ). Conosce quando i sette fattori di risveglio si destano, quando divenuti desti si sciolgono. E inoltre ancora un monaco vigila presso i fenomeni sul manifestarsi delle quattro nobili verità. Come? Un monaco comprende secondo verità “Questo è il dolore”, “Questa è l’origine del dolore”, “Questo è l’annientamento del dolore”, “Questa è la via che conduce all’annientamento del dolore”. Chi, monaci, sa così sostenere questi quattro pilastri del sapere può aspettarsi queste due possibilità: sicurezza durante la vita o non ritorno dopo la morte. Lasciamo stare i sette anni: chi, monaci, sa così sostenere questi quattro pilastri del sapere per sei anni, cinque, quattro, tre, due, un solo anno; lasciamo stare l’anno: chi, monaci, per sette mesi sa così sostenere questi quattro pilastri del sapere può aspettarsi queste due possibilità: sicurezza durante la vita o non ritorno dopo la morte. Ma lasciamo stare i sette mesi: chi, monaci, per sei mesi, cinque, quattro, tre, due, un mese, per un mezzo mese sa così sostenere questi quattro pilastri del sapere. lasciamo stare persino il mezzo mese: chi, monaci, per sette giorni sa così sostenere questi quattro pilastri del sapere può aspettarsi queste due possibilità: sicurezza durante la vita o non ritorno dopo la morte. “La diritta via che conduce alla purificazione degli esseri, al superamento del dolore e della miseria, alla distruzione della sofferenza e della pena, al conseguimento di ciò che è giusto, alla realizzazione dell’estinzione, è data dai quattro pilastri del sapere”: se questo è stato detto lo è stato di proposito.>>Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci della parola del Sublime.Note (1) Forse sepolta sotto l’attuale Kamasin, nella piana Kurukshetram della Jamna (o Yamunâ), ad occidente di Allâhâbâd. (2) Dato che, in India, da più di 2000 anni l’uccisione di una vacca è considerato un orribile delitto, risulta che la redazione di questo testo dev’essere anteriore di alcuni secoli ad Ashoka e risalire ai tempi in cui il macello di vacche per la pubblica vendita era accettato come normale. Pur considerando l’orrore che questa descrizione, considerata come un resto barbarico dell’antichità, poteva suscitare, essa fu conservata e tramandata intatta. Ciò prova la straordinaria venerazione per le parole del Maestro e lo scrupolo con cui le Sue parole furono tramandate. Attenzione! Riporto qui sotto un brano iniziale tradotto in inglese da Nyanasatta Thera con le sue note di commento, per chiarire il senso di ciò che il De Lorenzo ha tradotto: “... vigila presso il corpo sul corpo...”; “vigila presso le sensazioni sulle sensazioni”; e via dicendo.Herein (in this teaching) a monk lives contemplating the body in the body,[1] ardent, clearly comprehending and mindful, having overcome, in this world, covetousness and grief; he lives contemplating feelings in feelings, ardent, clearly comprehending and mindful, having overcome, in this world, covetousness and grief; he lives contemplating consciousness in consciousness,[2] ardent, clearly comprehending and mindful, having overcome, in this world, covetousness and grief; he lives contemplating mental objects in mental objects,[2] ardent, clearly comprehending and mindful, having overcome, in this world, covetousness and grief.Notes 1. The repetition of the phrases ‘contemplating the body in the body’, ‘feelings in feelings’, etc. is meant to impress upon the meditator the importance of remaining aware whether, in the sustained attention directed upon a single chosen object, one is still keeping to it, and has not strayed into the field of another contemplation. For instance, when contemplating any bodily process, a meditator may unwittingly be side-tracked into a consideration of his feelings connected with that bodily process. He should then be clearly aware that he has left his original subject, and is engaged in the contemplation of feeling. 2. Mind (Pali ‘citta’, also consciousness or viññana) in this connection means the states of mind or units in the stream of mind of momentary duration. Mental objects, dhamma, are the mental contents or factors of consciousness making up the single states of mind.

II PARTE – 01 - IL RUGGITO DEL LEONE (CÛLASÎHANÂDASUTTAM) (11)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là così si rivolse ai monaci: “ ‘Qui finalmente, monaci, mentre altrove si trovano solo parolai dell’ascesi, qui si trovano sino a quattro veri asceti’: questo, monaci, è il vero ruggito che dovete fare risuonare. Ma penitenti d’altro indirizzo potrebbero obbiettare: ‘Con quale diritto e ragione, onorevoli, parlate così?’. La vostra risposta dovrebbe essere questa: ‘Fratelli, il Sublime, il Conoscitore, il Veggente, il Santo, il perfetto Svegliato ci ha spiegato quattro cose che ora noi comprendiamo intimamente, ecco perché parliamo così. Quali quattro cose? Noi, fratelli, amiamo il maestro, amiamo la dottrina, adempiamo la regola dell’Ordine, e i probi ci sono cari e graditi, siano essi laici o religiosi. Ma potrebbe darsi che penitenti d’altro indirizzo dicessero: ‘Anche noi amiamo il nostro maestro, anche noi amiamo la nostra dottrina, anche noi adempiamo la nostra regola, anche a noi sono cari i probi, siano essi laici o religiosi: che differenza c’è dunque tra voi e noi?’ A tale discorso sarebbe da replicare: ‘Che ne pensate voi, fratelli: la perfezione è individuale o generale?’ E la giusta risposta dei penitenti sarebbe: ‘Individuale è la perfezione, non generale’. ‘E la perfezione l’ha il bramoso o chi è senza brama?’ E la giusta risposta degli altri penitenti sarebbe: ‘Chi è senza brama’. ‘E la perfezione l’ha l’ astioso?’ E la giusta risposta degli altri sarebbe: ‘Chi è senza astio’ ‘E la perfezione l’ha chi erra?’ E la giusta risposta dei penitenti sarebbe: ‘Chi è senza errore’. E la perfezione l’ha chi trova la vita gradevole, o chi non la trova gradevole?’ Giusta risposta: ‘Chi non la trova gradevole’. E la perfezione l’ha chi è attaccato all’esistenza o chi è da essa staccato? ‘ Giusta risposta: ‘Chi è staccato da essa’. ‘E la perfezione l’ha il sapiente o l’ignorante?’ Giusta risposta dei penitenti: ‘Il sapiente, non l ‘ignorante’. ‘E l’avrebbe chi è ora lieto e ora triste o chi non è né lieto né triste? Giusta risposta sarebbe: ‘Chi non è lieto né triste’. ‘Ed è perfetto chi ama la diversità e da essa è soddisfatto o il contrario?’. Giusta risposta sarebbe: ‘Colui al quale non piace nessuna diversità, non soddisfa nessuna diversità’. Vi sono due specie di idee: L’idea dell’essere e quella del non essere. Tutti gli asceti o i brâmani che sono attaccati all’idea dell’essere, che indulgono ad essa, che dipendono da essa, sono rattristati dall’idea del non essere. Tutti gli asceti o i brâmani che sono attaccati all’idea del non essere, che indulgono ad essa, che dipendono da essa, sono rattristati dall’ idea dell’essere. Tutti gli asceti o i brâmani che non hanno meditato conforme alla verità il principio e la fine, l’assuefazione, il disgusto e il superamento di queste due idee, e sono bramosi, astiosi, in errore, contenti della vita, attaccati all’esistenza, ignoranti, ora lieti ora tristi, amanti e soddisfatti della diversità: costoro non si redimono da nascita, vecchiaia e morte, da cure, pene e tormento, da strazio e disperazione, non si redimono dal dolore. Ma tutti gli asceti o i brâmani che hanno meditato conforme a verità tutte quelle cose, e sono senza brama, senza astio, senza errore, senza sete di vivere, staccati dall’esistenza, sapienti, né lieti né tristi, che non amano né sono soddisfatti dalle diversità: costoro si redimono da nascita, vecchiaia e morte, si redimono, io dico, dal dolore. Vi sono quattro specie di attaccamento, monaci: attaccamento alla sessualità, alla multiscienza vedica, all’ascesi fine a se stessa e al perdurare personale. Vi sono parecchi asceti o brâmani che si dichiarano capaci di spiegare tutta la vita dalle fondamenta; ma tale spiegazione essi non la danno: essi esaminano l’attaccamento alla sessualità, ma non l’ attaccamento alla multiscienza, non quello all’ascesi fine a se stessa, non l’attaccamento al perdurare personale. E perché no? Quei cari asceti o brâmani non hanno convenientemente meditato su queste tre cose, e perciò, sebbene pensino di comprendere tutta la vita dalle fondamenta, non possono compiere tale esame. Vi sono asceti o brâmani che esaminano l’attaccamento alla sessualità, l’attaccamento alla multiscienza, ma non l’attaccamento alle altre due cose. Non avendolo fatto, sebbene pensino di comprendere tutta la vita dalle fondamenta, non lo possono fare. Altri asceti o brâmani esaminano i primi tre attaccamenti, ma non l’attaccamento al perdurare personale, e, sebbene pensino di comprendere tutta la vita dalle fondamenta, non possono farlo. In quel modo, monaci, non possono essere perfetti né l’amore per il maestro, né quello per la dottrina, né l’adempimento della regola, né la valutazione e il gradimento dei probi. Perché? Perché non può essere diverso se un ordine è male annunziato, mal esposto, repellente, turbativo, non annunziato da un perfetto Svegliato. Ma il Compiuto, monaci, il Santo, il perfetto Svegliato si dichiara capace di spiegare tutta la vita dalle fondamenta, e lo fa. Egli esamina l’ attaccamento alla sessualità, quello alla multiscienza, quello all’ascesi fine a se stessa, e l’attaccamento al perdurare personale. In quel modo, monaci, sono perfetti l’amore al maestro, quello alla dottrina, l’adempimento della regola, la valutazione e il gradimento dei probi, perché è ciò che ci si può aspettare in un ordine ben annunziato, ben esposto, attraente, che dà calma, annunziato da un perfetto Svegliato. Ma questo quadruplice attaccamento, monaci, dove ha radice, da dove germina, da dove sorge, da dove cresce? Esso ha radice nella sete (tanhâ), germina, sorge e cresce dalla sete. E la sete dove ha radice, da dove germina, da dove sorge, da dove cresce? La sete ha radice nella sensazione (vedanâ). E la sensazione? La sensazione ha radice nel contatto (phassa). E il contatto? Il contatto ha radice nella sestupla sede (sal-âyatana). E la sestupla sede? Essa ha radice in immagine e concetto (nâma-rûpa). E immagi ne e concetto? Essi, che sono un tutt’uno, hanno radice nella coscienza (viññâna). E la coscienza? La coscienza ha radice nelle distinzioni (predisposizioni = samkhâra). E le distinzioni? Le distinzioni hanno radice nell’ignoranza (avijjâ). Ora, monaci, se un monaco ha rinnegato l’ignoranza e ha acquistato la sapienza, egli non è più attaccato alla sessualità, non alla multiscienza, non all’ascesi fine a se stessa, non al perdurare personale. Senza attaccamento egli diviene incrollabile. Incrollabile egli raggiunge la propria estinzione. Egli allora comprende: ‘Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo’.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci della parola del Sublime.

M.12 - Il rabbrividire - Mahasihanadasuttam: Lomahamsanapariyayo

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Vesali, fuori della citta’, al margine della foresta. Allora Sunakkhatto, un principe Licchavio, da poco uscito dall’Ordine, diceva per tutta Vesali: “L’asceta Gotamo non possiede il sopraterreno ricco santuario della chiarezza del sapere: l’asceta Gotamo proclama una sottile, intricata dottrina, che egli stesso ha ideato ed escogitato; e lo scopo per cui egli espone la sua dottrina, e’ semplicemente questo: che chi riflette raggiunge totale annientamento del dolore.” Ora avvenne che l’onorevole Sariputto, munito di mantello e scodella, avviatosi per l’elemosina verso Vesali, udi’ cio’ che il principe Sunakkhatto diceva in giro per tutta Vesali. Quindi, allorche’ torno’ indietro, dopo aver consumato il cibo elemosinato, si reco’ presso il Sublime e Gli riferi’ cio’ che il principe diceva. Cosi’ disse il Sublime: “O Sariputto, Sunakkhatto e’ vano e iracondo, perche’ solo per l’ira ha pronunciato quelle parole: egli vuole biasimare il Compiuto, ma con cio’ loda il Compiuto, perche’ e’ lode al Compiuto dire: lo scopo per cui egli esprime la sua dottrina e’ semplicemente questo: che chi riflette raggiunge totale annientamento del dolore. Certo, Sunakkhatto non pensa di me, conforme a verita’, : Questo e’ il Sublime, il perfetto Svegliato, il Santo, l’Esperto di sapienza e di vita, il Benvenuto, il Conoscitore del mondo, l’incomparabile duce dell’umano gregge, il maestro degli dèi e degli uomini, lo Svegliato, il Sublime. E inoltre: questo e’ il Sublime, che in vari modi si allegra di magica potenza: che da uno diviene molteplice, e molteplice, uno; che appare e dispare; che attraverso rupi, valli e muri si libra e passa come per l’aria; che sulla terra emerge e s’immerge come nell’acqua; che sull’acqua cammina senza affondare come sulla terra; che attraverso l’aria procede sedendo come l’uccello con i suoi piccoli; che sente e tocca con mano questa luna e questo sole, cosi’ possenti, cosi’ violenti; che ha il corpo in suo potere fino ai mondi di Brahma. E ancora: questo e’ il Sublime, che con l’orecchio celeste, purificato, sopraterreno, sente due specie di suoni, i celesti e i terreni, i lontani e i vicini. E ancora: questo e’ il Sublime, che agli altri esseri, alle altre persone, scruta a fondo e riconosce animo e cuore; riconosce il cuore bramoso e quello senza brama, il cuore astioso e quello senz’astio, il cuore errante e quello senza errore, il cuore raccolto e quello distratto, il cuore tendente all’alto e quello di basso sentire, il cuore nobile e quello volgare, il cuore calmo e quello inquieto, il cuore redento e quello vincolato. Vi sono dieci virtu’, o Sariputto, che convengono e spettano al Compiuto, per comprendere quel che e’ sorprendente, per far risonare tra le genti il ruggito del leone, per fondare il regno della santita’; queste dieci virtu’ sono: il Compiuto, o Sariputto, comprende il vero e il falso, conforme a verita’. Comprende vere e reali conseguenze di azioni passate, presenti e future, conforme a verita’. Conosce la Via che mena dappertutto, conforme a verita’. Conosce, conforme a verita’, come il mondo sia composto da singoli elementi e da diversi elementi. Conosce, conforme a verita’, le diverse inclinazioni degli esseri. Conosce la misura data dai sensi agli altri esseri, alle altre persone, conforme a verita’. Conosce, conforme a verita’, colpa, purezza ed esito del contemplante redento e raccolto. Si ricorda di diverse forme di esistenza anteriori come di una vita, due vite, cento vite, mille vite, centomila vite; la’ ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, il mio officio, provai tale bene e male, cosi’ fu la fine della mia vita; di la’ trapassato entrai io altrove di nuovo in esistenza. Cosi’ egli si ricorda di molte diverse anteriori forme di esistenza, ognuna con i propri contrassegni, ognuna con le sue speciali relazioni. E inoltre, ancora o Sariputto, il Compiuto con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno vede gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e non belli, felici ed infelici, ed egli riconosce come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono: questi, non retti in azioni, parole e pensieri con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, pervengono giu’, su cattivi sentieri, alla perdizione, nel precipizio; quelli, retti in azioni, pensieri e parole, con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, pervengono su buoni sentieri, in mondo elevato. E inoltre il Compiuto, estinta la manìa, ancora durante la vita ha reso a se’ palese, realizzato e conquistato la redenzione dell’animo. Queste sono, o Sariputto, le dieci virtu’ che spettano al Compiuto. Quattro specie di sicurezza vi sono che spettano al Compiuto, che chichessia non potrebbe obiettarmi perche’ false, e che percio’ mi lascerebbero tranquillo, imperturbato, sicuro, e sono: Perfetto Svegliato, tu ti chiami, e’ vero, ma queste cose non le hai riconosciute; esausto di manìa tu ti chiami, e’ vero, ma tale manìa non e’ estinta; cio’ che tu indichi come dannoso, cio’ a chi lo fa non riesce dannoso; e se anche tu esponi la tua dottrina con una certa intenzione, pure essa non giunge a dare a chi riflette totale annientamento del dolore. Chi, ora, o Sariputto, in tal modo parlasse: l’asceta Gotamo non possiede il sopraterreno, ricco santuario della chiarezza del sapere; l’asceta Gotamo proclama una sottile, intricata dottrina, che egli stesso ha ideata ed escogitata, chi non si pentisse di parlare cosi’ e non rinunciasse a tale opinione, costui potrebbe, per suo stesso volere, rovinare per mala via. Otto adunanze, vi sono, o Sariputto: quella dei nobili, dei sacerdoti, dei borghesi, degli asceti, degli dei delle quattro regioni, dei trentatre’ dei, degli dei naturali e degli dei celesti. Ebbene il Compiuto, cinto di quella quadrupla sicurezza si reca alle otto adunanze. Ed io ricordo di essere stato tra molte centinaia di nobili; innanzi a me essi sedevano, ed io parlavo con essi e noi scambiavamo cosi’ domande e risposte. Che io potessi allora cadere in confusione o imbarazzo, tale possibilita’ o Sariputto, non esiste. Percio’ rimango tranquillo, imperturbato, sicuro. Alla stessa stregua io ricordo di essere stato tra molte centinaia di sacerdoti, borghesi, asceti e molteplici dei. Vi sono, o Sariputto, quattro specie di grembi, e sono: il grembo dell’uovo, dove gli esseri vengono al mondo rompendo il guscio dell’uovo: il grembo del corpo, dove gli esseri vengono al mondo fuoriuscendo dall’involucro del corpo; il grembo del fermento dove gli esseri si formano nel pesce o nella carne o nel cibo putrefatto, o vengono al mondo in paludi o pantani; e il regno dell’apparizione, dove si manifestano dei, demoni, alcuni uomini e vari spiriti. Cinque tracce vi sono, o Sariputto, ed io conosco che esse sono la falsa via, ovvero il sentiero che mena giu’ ed il suo agire, seguendo i quali si giunge, dopo la morte a perdizione e danno, in luogo di spasimo e strazio; la generazione animale, l’agire e il sentiero che mena alla generazione animale; il regno degli spiriti, ed il sentiero e l’agire che ivi conduce; gli uomini, l’agire ed il sentiero che mena al mondo degli uomini; gli dei ed il sentiero che mena al loro mondo di gioia celeste. E l’estinzione, io conosco, ed il sentiero e l’agire che mena all’estinzione, seguendo i quali, dopo l’estinguersi della manìa, ancora durante la vita, si rende palese, si realizza, si conquista e si possiede la redenzione dell’animo senza manìa, redenzione di saggezza: anche questa via io conosco. Queste sono le cinque tracce.E inoltre, o Sariputto, io ricordo i tempi delle quattro ascesi da me esercitate: ascesi fervente, orrenda, afflitta, solinga. Cosi’ ho praticato il fervore: io ero un ignudo, uno svincolato, un flagellante, uno che non arriva, che non aspetta; non accettavo offerta, non favore, non invito; nel ricevere l’elemosina, non spiavo verso la pentola, non verso il piatto, non sopra la soglia, non sopra la grata, non dentro il caldaio; non prendevo da chi mangia a due, non da una incinta, non da una lattante, non da una che viene dall’uomo, non da insudiciati, non dove sta presso un cane, non dove ronzano mosche; non mangiavo pesce, non carne; non bevevo vino, non liquore, non succo d’avena fermentata. Io andavo ad una casa e mi contentavo con una manciata di elemosina; andavo a due case e mi contentavo di due manciate; andavo a sette case e mi contentavo di sette manciate d’elemosina. Io sostentavo la mia vita con l’elemosina di una sola largitrice, di solo due largitrici, di solo sette largitrici. Io mi cibavo solo una volta al giorno, solo ogni due giorni, solo ogni sette giorni. Cambiando in questo modo, io osservavo rigorosamente questo esercizio di digiuno fino a mezzo mese. Ed io vivevo di erbe e di funghi, di riso e grani selvaggi, di semi e noccioli, di latte di piante e resina d’alberi, di gramigne, di sterco di bue; mi sostentavo di radici e frutti del bosco; vivevo di frutti caduti. Ed io portavo la tunica di canapa, di crini, una veste rattoppata di pezze raccolte al cimitero o sulla strada; mi avvolgevo in stracci, in pezzi di pelle, di cuoio; mi cingevo con trecce di gramigna, di scorza, con trecce di foglie; nascondevo le nudita’ sotto grembiali di crini, di setole, sotto un’ala di civetta. Ed io mi strappai i peli del capo e della barba, seguendo la regola di coloro che cosi’ fanno; fui un sempre alzato, rigettai sedile e giaciglio; fui un sedente sui calcagni; fui uno di quelli che si coricano sulle spine; scesi per tre volte ogni sera nel bagno di penitenza. E questo e’ stato il mio fervore. E cosi’ o Sariputto, ho poi curato l’orridezza: io lasciavo accumulare sul corpo la sporcizia e la polvere di molti anni, fino a cadersene, come sul tronco dell’ebano si addensa la polvere di anno in anno fino a cadersene. E non mi veniva nessun pensiero di questo genere: ‘ ah, potessi finalmente tergermi da questa polvere e sporcizia, o potessero farlo altri!’. E questa e’ stata la mia orridezza. E cosi’ o Sariputto, ho poi coltivato afflizione: ogni mio passo era guidato da chiara coscienza, e perfino una goccia d’acqua muoveva in me la compassione: ‘ ah, che io non apporti danno ai piccoli esseri perduti!’. E cosi’, Sariputto, ho appreso la solitudine: io mi addentravo in qualche bosco e vi dimoravo; ma se scorgevo un mandriano o un pastore, un cercatore d’erbe o legnaiolo o raccoglitore di fascine, allora fuggivo di foresta in foresta, di selva in selva, di valle in valle, di monte in monte, perche’ quelli non dovevano vedermi ed io non volevo vedere loro: alla stessa stregua di una fiera del bosco che abbia visto uomini. E questa e’ stata la mia solitudine. Ed io poi, Sariputto, quando i mandriani erano via, scendevo alle mandre, alle vacche attaccate e raccoglievo, camminando carponi, lo sterco dei giovani vitelli lattanti, e mi nutrivo di cio’. E cio’ che ne rimaneva indigerito, come mio proprio escremento o urina, anche quello io prendevo. E questo, Sariputto, e’ stato il mio grande calice di feccia. Ed io mi sono poi recato in un’altra orrenda selva a dimorarvi. In quella spaventosa solitudine, regnava tale orrore, che ad ogni non santificato viandante subito si rizzavano i capelli. E durante le fredde, glaciali notti d’inverno, al tempo del gelo, io mi trattenevo di notte in una radura, e di giorno nel folto del bosco. E mi si presento’ allora questa spontanea strofa, mai prima sentita: Al sole avvampa e intirizzisce al gelo un eremita in tant’orrenda selva spirando ed inspirando via via ignudo, solo, senza focolare. Ed io passai poi oltre, ad un cimitero, e mi distesi sopra un mucchio d’ossa imputridite. Ed allora vennero figli di pecorai che mi sputarono, mi bagnarono e mi lordarono di sporcizia e mi introdussero erbe aguzze nelle orecchie. Eppure io non ricordo che in me fosse sorto un cattivo pensiero contro di essi. E questa, Sariputto, e’ stata la mia equanimita’. Parecchi asceti e brahmani dicono e insegnano: il nutrimento purifica, ed ammoniscono: viviamo di giuggiole. E consumano giuggiole, mangiano conserva di giuggiole, bevono succo di giuggiole, gustano ogni sorta di pietanza di giuggiole. Io ricordo di aver mangiato solo una giuggiola come nutrimento quotidiano. Tu forse pensi, o Sariputto, che a quel tempo le giuggiole fossero piu’ grosse di quelle odierne, ma cosi’ non e’. E mentre io prendevo solo una giuggiola come nutrimento quotidiano, il mio corpo divenne straordinariamente magro. Parecchi asceti e brahmani dicono e insegnano: il nutrimento purifica, ed ammoniscono: viviamo di fave; viviamo di sesamo; viviamo di riso. Ed essi consumano riso, mangiano zuppa di riso, bevono acqua di riso, gustano ogni sorta di pietanza di riso. Io ricordo di aver mangiato solo un grano di riso come nutrimento quotidiano, e cosi’ il mio corpo divenne straordinariamente magro. Le mie braccia e le gambe divennero come canne secche, appassite, per questo nutrimento estremamente scarso; il mio sedere divenne come un piede di cammello, la mia spina dorsale con le vertebre sporgenti divenne come un rosario; come le travi del tetto d’una vecchia casa sporgono, cosi’ sporgevano le mie costole; come in una profonda fontana i sottostanti specchi d’acqua rilucono evanescentemente piccoli, cosi’ rilucevano nelle mie orbite le infossate pupille; come una zucca selvaggia, tagliata fresca, al caldo diviene vuota e grinzosa, cosi’ divenne la mia pelle del capo vuota e grinzosa. E quand’io volevo toccare il ventre, giungevo alla spina dorsale, e quando volevo toccare la spina dorsale, giungevo di nuovo al ventre. E se io volevo svuotare feci e urina cadevo innanzi; per rinforzare allora questo corpo, io strofinavo con la mano le membra: e mentre cosi’ facevo se ne cadevano i peli, putridi alle radici. E anche questa via, questa disciplina, questa dura ascesi, non mi porto’ piu’ vicino al sopraterreno, ricco santuario della chiarezza del sapere; questo perche’ io non avevo ancora conquistato quella saggezza la cui conquista da’ a chi riflette totale annientamento del dolore. Parecchi asceti e brahmani dicono e insegnano: il giro purifica; eppure non e’ affatto gradevole il girare: ed io in questo lungo cammino in nessun altro luogo l’ho trovato tale se non presso i puri dei. Ma se anche io dovessi rigirare tra i puri dei, non vorrei tornare a questo mondo. Parecchi asceti e brahmani dicon e insegnano: la nascita purifica; eppure non e’ affatto gradevole la nascita: ed io in questo lungo cammino in nessun altro luogo l’ho trovata tale se non presso i puri dei. Ma se anche io dovessi rinascere tra i puri dei, non vorrei tornare a questo mondo. Parecchi asceti e brahmani dicono e insegnano: la vita purifica; oppure:la beneficenza purifica; oppure: il sacrificio del fuoco purifica. Eppure non e’ affatto gradevole la vita; ed io in questo lungo cammino in nessun luogo l’ho trovata tale se non presso i puri dei. Ma se anche dovessi rivivere tra i puri dei, non vorrei tornare a questo mondo. E non e’ affatto facile la beneficenza: ed io in questo lungo cammino non ho potuto farla se non come re guerriero o potente brahmano. E non e’ affatto facile il sacrificio del fuoco; ed io in questo lungo cammino non ho potuto offrirlo se non come re guerriero o potente brahmano. Parecchi asceti e brahmani dicono e insegnano: Fintanto che questo caro uomo e’ giovane e forte, splendente di capelli neri, nel godimento ella felice giovinezza, nella prima eta’ virile, egli possiede anche le piu’ alte forze dello spirito. Ma quando quest’ uomo e’ divenuto vecchio e grigio, grave d’anni, vicino alla fine, vissuto, un ottantenne o novantenne, o centenario, allora si dileguano da lui quelle forze dello spirito. Eppure cio’ o Sariputto, non e’ in tutti i casi esatto. Io sono gia’ ora divenuto vecchio e grigio, e grave d’anni, vicino alla fine, vissuto, sono nell’ottantesimo anno. Cosi’ come un nervoso arciere ammaestrato e provetto, potrebbe con facilita’ lanciare una freccia leggera al di sopra di una palma, cosi’ potrebbero fare quattro eventuali miei discepoli che fossero sempre sensibili, virtuosi, forti, e dotati delle piu’ alte forze dello spirito. Ed essi mi ponessero domande su domande, come sui quattro pilastri del sapere, ed io rispondessi loro fornendo spiegazioni. Inespletata rimarrebbe la testimonianza e l’indicazione del Compiuto sulla verita’, perche’ anche quei quattro eventuali discepoli diverrebbero a loro volta vecchi di cent’anni, morendo poi in seguito. E quando voi mi porterete sul letto, o Sariputto, la forza di spirito del Compiuto sara’ immutata. Chiunque di me a buon diritto puo’ dire: un essere senza vanita’ e’ apparso nel mondo, pel bene di molti, per la salute di molti, per compassione del mondo, per utile, bene e salute degli dei e degli uomini.Ora durante questo tempo l’onorevole Nagasamalo era stato dietro il Sublime sventolandogli aria fresca e si rivolse al Sublime cosi’: e’ mirabile, o Signore, straordinario, che io, mentre ascoltavo questa esposizione, mi sono sentito rabbrividire; come deve chiamarsi, Signore, questo discorso? Orsu’, dunque, Nagasamalo, serbalo allora sotto il nome di discorso del rabbrividire. Cosi’ parlo’ il Sublime. Contento si rallegro’ l’onorevole Nagasamalo della parola del Sublime.

II PARTE - 03 (13) - IL TRONCO DEL DOLORE (MAHÂDUKKHAKKHANDHASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâtapindiko. Ora, un giorno molti monaci, preparatisi per tempo, provvisti di mantello e scodella, si avviarono verso la città, per l’elemosina. Ma essi pensarono: ‘È ancora troppo presto per andare in città a elemosinare; non sarebbe meglio se ora visitassimo il giardino dei pellegrini d’altro orientamento?’ E così fu fatto ed essi scambiarono con gli altri cortesi saluti e amichevoli, notevoli parole e si sedettero da una parte. E i pellegrini d’altro orientamento, rivolgendosi ai monaci, dissero: “L’asceta Gotamo, fratelli, esamina la brama dalle fondamenta, lo facciamo anche noi; egli esamina dalle fondamenta anche il corpo e il sentimento: quale limitazione, quale distinzione e differenza esiste dunque tra l’asceta Gotamo e noi, sia riguardo all’esposizione come ai precetti?” Ma i monaci, a queste parole dei pellegrini, senza rallegrarsi e senza provare fastidio, si alzarono e se ne andarono, dicendo: “Dal Sublime intenderemo il senso di queste parole”. Ed essi andarono a Sâvatthî, passarono di casa in casa per elemosinare il cibo, tornarono indietro, si cibarono e si recarono dal Sublime. Là giunti, essi lo salutarono rispettosamente e si sedettero accanto a lui raccontando ciò che era loro accaduto e riferendo ciò che era stato loro chiesto dai pellegrini d’altro orientamento. E il Buddha replicò: “A queste parole dei pellegrini bisognava rispondere: ‘Cos’è dunque la soddisfazione, la miseria e il superamento della brama? Cos’è la soddisfazione, la miseria e il superamento del corpo e del sentimento?’ Se li aveste interrogati così, quei pellegrini non avrebbero trovato una risposta soddisfacente, sarebbero anzi stati imbarazzati. Perché? Perché ciò è qualcosa che non sanno interpretare. Non vedo nessuno, monaci, nel mondo con i suoi dèi, i suoi cattivi e buoni spiriti, con le sue schiere di asceti e brâmani, dèi e uomini, che possa, spiegando queste domande, guadagnare il cuore della questione, eccetto il Compiuto, o un suo discepolo, e quelli che qui lo ascoltano. Cos’è ora, monaci, la soddisfazione della brama? Vi sono cinque facoltà di bramare: quali? Le forme che tramite la vista penetrano nella coscienza, forme desiderate, amate, appaganti, gradite, corrispondenti ai desideri, eccitanti; i suoni, gli odori, i sapori, i contatti anch’essi e tramite essi penetranti nella coscienza, desiderati, amati, appaganti, graditi, corrispondenti ai desideri, eccitanti. Ecco, monaci, le cinque facoltà di bramare. Ciò che vi è di desiderabile e gradito, adatto a queste cinque facoltà di bramare, è la soddisfazione della brama. E cos’è la miseria della brama? Un figlio di buona famiglia si mantiene con un’attività come scrivano, contabile o amministratore; come agricoltore o mercante o allevatore di bestiame; come soldato o ministro del re, o in qualsiasi altro modo. È esposto al caldo, al freddo; deve sopportare sole e vento, dibattersi tra zanzare, vespe e rettili; patisce fame e sete. Ma ciò è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato da brama, intessuto di brama, mantenuto da brama e determinato da brama. Se questo figlio di famiglia che così si affatica, si danna e si martirizza, non acquista ricchezza, allora egli diventa accorato e triste, si lagna, piangendo si percuote il petto, cade nella disperazione: ‘Vano, ahimè, è il mio sforzo, la mia fatica non ha scopo!’ Ma ciò, monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato, intessuto, mantenuto da brama e determinato da brama. Se invece questo figlio di famiglia si arricchisce, allora lo rode ansiosa cura per la conservazione della ricchezza: ‘Purché i miei beni non mi vengano confiscati dal re, o rubati dai briganti, o divorati dalla fiamme, o spazzati via dall’acqua, o strappati da parenti ostili!’ E mentre guarda e custodisce i suoi beni essi gli vengono sottratti proprio da ciò che temeva. Allora egli diventa accorato e triste, si lamenta, si batte il petto piangendo, si dispera: ‘Quello che possedevo non l’ho più!’ Ma ciò, monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato, intessuto, mantenuto da brama e determinato da brama. E inoltre, monaci, mossi da brama, incitati, spinti da brama, appunto solo per brama re contendono con re, principi con i principi, sacerdoti con sacerdoti, cittadini con cittadini; la madre litiga col figlio, il figlio con la madre, il padre col figlio, il figlio col padre; litiga il fratello col fratello, il fratello con la sorella, la sorella col fratello, l’amico con l’amico. Caduti così in discordia, lite e contesa, essi si scagliano l’ uno sull’altro coi pugni, con pietre, bastoni e spade. E così si affrettano incontro alla morte o a dolore mortale. Ma ciò, monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato, intessuto, mantenuto da brama e determinato da brama. E inoltre ancora, monaci, mossi da brama, incitati, spinti da brama, solo per brama essi si precipitano, impugnando scudo e spada, cinti di faretra ed arco, dai due lati dello schieramento di battaglia, e le frecce fischiano, le lance ondeggiano e le spade lampeggiano. Ed essi si trafiggono con frecce, con lance; si spaccano le teste con le spade, si rovesciano addosso sabbia rovente, scaraventano blocchi che schiacciano. E così si affrettano incontro alla morte o a mortale dolore. Ma ciò, monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato, intessuto, mantenuto da brama e determinato da brama. E ancora, monaci, mossi da brama, incitati, spinti da brama, solo per brama essi irrompono nelle case, rapiscono i cari degli altri, rubano, ingannano, seducono spose. E i re fanno arrestare costoro e li condannano a pene e tormenti come: percosse con fruste, con bastoni, con verghe; amputazioni della mano, del piede o di entrambi; amputazione delle orecchie, del naso o di entrambi; tormenti come il caldaio di pasta, il raschiamento con le conchiglie, la bocca di drago, la corona di pece, la mano a fiaccola; correre sugli aculei, giacere su scorze, la veste di setole; la carne da amo, il pezzo di moneta, la corrosione con liscivia; il rullo, il graticcio di paglia; l’irrigazione con olio bollente, lo sbranamento coi cani, l’ impalamento, la decapitazione. E così si affrettano incontro alla morte o a mortale dolore. Ma ciò, monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato, intessuto, mantenuto da brama e determinato da brama. E, sempre a causa della brama essi procedono sulla cattiva strada con azioni, parole, e pensieri; in tal modo essi pervengono con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, giù, su cattivi sentieri a perdersi e dannarsi. E cos’è il superamento della brama? Rinnegare la volontà e il desiderio di brama, annientare la volontà e il desiderio di brama, ciò è il superamento della brama. Ma che asceti o brâmani che non conoscono, conforme a verità, il soddisfare, la miseria e il superamento della brama, non è possibile che comprendano la brama o guidino un altro a farlo. Mentre voi, monaci, che conoscete, conforme a verità, la brama, potete farlo. Cos’è, ora, monaci, la soddisfazione del corpo? Per esempio una figlia di principi, o una vergine brâmana, o una fanciulla borghese, nel fiore dei quindici o sedici anni, non troppo alta né troppo piccola, non troppo sottile né troppo piena, non troppo scura né troppo chiara: non appare di una splendente bellezza nel momento della sua massima magnificenza? “Certamente, Signore!” Ciò che scaturisce di desiderabile e gradito da questa splendente bellezza, è soddisfazione del corpo. Ma cos’è la miseria del corpo? Si veda pure questa stessa sorella in altro tempo, nell’ottantesimo, novantesimo o centesimo anno d’età, curva, affranta, consunta, trascinarsi tremolante, appoggiata alle grucce, macilenta, appassita, sdentata, le ciocche imbiancate o il capo calvo, vacillante, aggrinzito, la pelle piena di macchie: cosa ne pensate, monaci? È sparita quella che era un dì una splendida bellezza, ed è divenuta evidente miseria? “Certo, Signore!” Ciò è miseria del corpo. E ancora: osservate questa sorella inferma, sofferente, gravemente ammalata, giacere sporca di feci e di urina, da altri sollevata, da altri accudita: cosa ne pensate, monaci? È sparita quella che era un dì una splendida bellezza, ed è divenuta evidente miseria? “ È così, Signore!” Anche ciò è miseria del corpo. Immaginate ancora questa sorella, il corpo al cimitero, uno, due, tre giorni dopo la morte, gonfio, annerito, imputridito: cosa ne pensate? È sparita quella che era un dì una splendida bellezza, ed è divenuta evidente miseria? “Così è, Signore!” E inoltre ancora: immaginate, monaci, il suo corpo a cimitero, straziato da cornacchie, corvi e avvoltoi, sbranato da cani e sciacalli, roso da molte specie di vermi. O ancora: lo scheletro con brani di carne attaccata, insozzato di sangue, tenuto insieme dai tendini; oppure lo scheletro senza carne, tenuto insieme dai tendini; oppure le ossa, senza i tendini, sparse qua e là; qua un osso della mano, là un osso del piede, qua una tibia, là un femore, qua un bacino, là vertebre, qua il cranio. E ancora le sue ossa imbiancate, del colore delle conchiglie; trascorso un anno, le ossa ammucchiate; le ossa, imputridite, cadute in polvere: cosa ne pensate, monaci? È sparita quella che era un dì una splendida bellezza, ed è divenuta evidente miseria? “Sì, Signore!” Ciò è miseria del corpo, ma cos’è il superamento del corpo? Ciò che nel corpo, monaci, è rinnegamento di volontà e desiderio, annientamento di volontà e desiderio, ciò è superamento del corpo. Ma asceti o brâmani che non conoscono così, conforme alla verità, soddisfazione, miseria e superamento del corpo, non è possibile che capiscano il corpo o possano guidare un altro ad arrivare a capirlo. Ma voi, monaci, che avete compreso, conforme alla verità, potete farlo. Cos’è ora la soddisfazione del sentimento? Un monaco, lungi da brame, lungi da cose non salutari, in sentita, pensata, nata da pace beata serenità, raggiunge la prima contemplazione. Egli, a questo punto, non dipende da sé né da altri, e prova solo un sentimento di indipendenza. L’indipendenza, io dico, monaci, è la più alta soddisfazione del sentimento. Successivamente, monaci, dopo il compimento del sentire e pensare, un monaco raggiunge la calma interiore, l’unità dell’animo, la libera beata serenità nata dal raccoglimento, libera dal sentire e pensare; raggiunge la seconda contemplazione. Egli, a questo punto, non dipende da sé né da altri, e prova solo un sentimento di indipendenza. L’indipendenza, io dico, monaci, è la più alta soddisfazione del sentimento. E inoltre ancora, monaci: in serena pace se ne sta un monaco, equanime, savio, chiaro cosciente, e prova nel corpo la felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’; così egli raggiunge la terza contemplazione. Quando ciò accade, egli non dipende da sé né da altri, e prova solo un sentimento di indipendenza. L’indipendenza, io dico, monaci, è la più alta soddisfazione del sentimento. E ancora, monaci: dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza, un monaco raggiunge l’ equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione. Quando ciò accade, egli non dipende da sé né da altri, e prova solo un sentimento di indipendenza. L’indipendenza, io dico, monaci, è la più alta soddisfazione del sentimento. Cos’è ora miseria del sentimento? Ciò che vi è di un sentimento caduco, doloroso, mutevole, quello è la miseria del sentimento. E il superamento del sentimento? Ciò che nel sentimento è rinnegamento della volontà e del desiderio, annientamento della volontà e del desiderio, quello è il superamento del sentimento. Ma non è possibile che asceti o brâmani che non conoscono, conforme a verità, soddisfazione, miseria e superamento del sentimento, comprendano il sentimento stesso o guidino un altro a farlo. Invece è possibile che asceti o brâmani i quali conoscano così, conforme alla verità, tutto ciò, comprendano il sentimento stesso o guidino un altro a farlo.Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci per la Sua parola.

II PARTE - 04 (14) - IL TRONCO DEL DOLORE (2) (CÛLADUKKHAKKHANDHASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava nella terra dei Sakki (Sakyâ), presso Kapilavatthu, nel parco dei fichi. Allora un principe dei Sakki, Mahânâmo, si recò là dove il Sublime dimorava, lo salutò rispettosamente si sedette da una parte e parlò così: “Già da lungo tempo mi pare che la dottrina del Signore sia questa: ‘Brama, avversione ed errore sono turbamento del cuore’. Così io la conosco, ma, ciò malgrado, il mio cuore si lascia a volte influenzare da motivi di brama, di avversione e di errore. Mi chiedo, Signore, cosa in me ancora mi domina per essere così influenzato?” “Mahânâmo, se così non fosse, tu non vorresti rimanere nella famiglia, né soddisfare alcuna brama. ‘Inappaganti sono le brame, piene di spasimo, piene di strazio: la miseria prepondera’: se il santo uditore Mahânâmo ha riconosciuto vera questa massima, con perfetta sapienza, ma non trova fuori dalle brame, fuori da ciò che è dannoso, nessuna felicità e niente di meglio, allora egli si aggira appunto sempre intorno alle brame. Ma appena il santo uditore ha riconosciuto vera, con perfetta sapienza, quella massima, e trova fuori dalle brame, fuori da ciò che è dannoso, felicità e meglio ancora, allora egli non s’aggira più intorno alle brame. Anche io, Mahânâmo, prima del pieno risveglio, quale Bodhisatta solo al risveglio anelante, avevo riconosciuto conforme a verità, con perfetta sapienza quella massima, eppure, fuori dalle brame e dal dannoso, io non trovavo alcuna felicità e niente di meglio; fu così che mi accorsi di ciò che mi accadeva. Ma appena me ne accorsi ed ebbi riconosciuto la verità di quella massima, con perfetta sapienza, e trovai felicità fuori da ciò che è dannoso, mi accorsi che le brame non erano più un’attrattiva. Ma cos’è l’appagamento delle brame? Vi sono cinque facoltà di bramare. Quali? Le forme che penetrano tramite la vista nella coscienza; i suoni che penetrano attraverso l’udito nella coscienza; gli odori che penetrano tramite il naso nella coscienza; i sapori che penetrano tramite la lingua nella coscienza; i contatti che penetrano tramite il tatto nella coscienza, tutti desiderati, amati, appaganti, graditi, adatti alle brame, eccitanti; sono queste le cinque facoltà del bramare. Ciò che riesce desiderabile e gradito per queste cinque facoltà è appagamento della brame. E qual è la miseria delle brame? Un figlio di buona famiglia si mantiene con un incarico: come scrivano, come contabile o amministratore, come agricoltore, mercante, allevatore di bestiame, soldato o ministro del re, o con qualsiasi altro servizio. È esposto al caldo e al freddo, deve sopportare sole e vento, barcamenarsi tra zanzare, vespe e rettili; patisce Se a questo figlio di famiglia che così si affatica, si tormenta e soffre non viene ricchezza, egli diventa accorato e triste, si lamenta, si batte piangendo il petto, si dispera: ‘Vano, ahimè, è il mio sforzo, la mia fatica non ha raggiunto lo scopo!’ Anche questo è la miseria delle brame. Se invece si arricchisce, allora si preoccupa di conservare la ricchezza: ‘Che i beni non mi siano sequestrati dal re; o rubati dai briganti, o distrutti dal fuoco, o spazzati via da un’alluvione, o strappati da parenti ostili!’ E, mentre cerca di amministrare i suoi beni, gli capita proprio ciò che ha temuto. Allora diventa accorato e triste, si lamenta, piange, si percuote il petto, si dispera: ‘Quello che possedevo non c’è più!’ Ecco la miseria delle brame, ecco l’evidente tronco del dolore originato da brame, intessuto di brame, mantenuto e determinato proprio da brame. E inoltre, Mahânâmo, mossi da brame, incitati e spinti da brame contendono i re con i re, i principi con i principi, sacerdoti con sacerdoti, cittadini con cittadini; litiga la madre col figlio, il figlio con la madre, il padre col figlio, il figlio col padre, litiga il fratello col fratello e con la sorella e viceversa, litiga l’amico con l’amico. Caduti così in discordia essi si lanciano gli uni contro gli altri coi pugni, con pietre, bastoni e spade. E così s’affrettano incontro alla morte o a mortale dolore. Ma ciò, Mahânâmo, è miseria delle brame, ecco l’evidente tronco del dolore originato da brame, intessuto di brame, mantenuto e determinato proprio da brame. E ancora: mossi da brame essi si precipitano impugnando scudo e spada, cinti di faretra e arco, si schierano sui due lati dell’ordine di battaglia o sulle fortificazioni, e le frecce fischiano, le aste ondeggiano, le spade lampeggiano. E si trafiggono con frecce, con lance; si spaccano le teste con le spade. E così si affrettano incontro alla morte. E inoltre: sempre mossi da brame irrompono nelle case, saccheggiano, rubano, ingannano, violentano spose. E i re li fanno arrestare e li condannano a pene e tormenti come frustate, bastonate, vergate; amputazioni di mano, di piede o di entrambi; amputazioni delle orecchie, del naso o d’entrambi: il caldaio di pasta, il raschiamento con conchiglie, la bocca di drago; la corona di pece, la mano a fiaccola: il correre su aculei, il giacere in scorze, la veste di setole; la carne da amo, il pezzo di moneta, la corrosione con liscivia; il rullo, il graticcio di paglia; l’irrigazione di olio bollente, lo sbranamento con cani, impalamento da vivo, la decapitazione. E così s’affrettano incontro alla morte. E ancora: mossi da brame essi agiscono male, parlano male e pensano in modo malvagio, e così facendo, essi pervengono dopo la morte a perdersi e soffrire. Ma tutto ciò, Mahânâmo, è miseria delle brame, è l’evidente tronco del dolore originato da brame, intessuto di brame, mantenuto e determinato proprio da brame.”Una volta, Mahânâmo, io soggiornavo a Râjagaham, sui pascoli del Picco dell’ Avvoltoio. In quel tempo, alle falde del Picco del Vate, alla Rocca Nera, venivano molti Liberi Fratelli, i Niganthâ della grande setta dei Jainâ, ed esercitavano l’ascesi sempre ritti, rifiutando sedili e giacigli: e soffrivano dolorose, pungenti, cocenti sensazioni. E, una sera, dopo la meditazione io mi recai lì e dissi loro: ‘Perché, cari fratelli, esercitate l’ascesi così, e subite queste dolorose sensazioni?’ Essi mi risposero: ‘Il Niganthâ Nâthaputto sa tutto, comprende tutto, professa illimitata chiarezza di sapere: ‘Se vado o sto, dormo o veglio, ho sempre presente l’intera chiarezza del sapere.’ Ed egli dice: ‘Niganthâ! Voi nel passato vi siete comportati male e ora espiate ciò con questa amara ascesi di tormenti. Siccome ora controllate azioni, parole e pensieri, non fate più del male e, estirpando le vecchie ed evitando nuove errate azioni, non vi sarà più alcun influsso. Non essendoci influsso, si giunge all’ esaurimento delle azioni e, di conseguenza, all’esaurimento del dolore e, di qui, all’esaurimento della sensazione. Con l’esaurimento della sensazione ogni dolore sarà superato.’ Questo che ci dice, ci sembra chiaro, e noi lo approviamo e ne siamo soddisfatti’. Io replicai: ‘Allora, cari fratelli voi sapete se siete già esistiti o no?’ ‘Noi non lo sappiamo, fratello’. ‘Allora sapete se nel passato avete fatto male o siete rimasti senza nuocere?’ ‘Noi non lo sappiamo, fratello’. ‘Allora sapete quali male azioni avete commesso?’ ‘Noi non lo sappiamo, fratello’. ‘Sapete forse se una parte del dolore è superata, e se un’altra parte resta da superare; ma se è superato un pezzo del dolore si potrà superare tutto il dolore?’ ‘Noi non lo sappiamo, fratello’. ‘Sapete forse come, ancora in questa vita, si possa abbandonare il falso e guadagnare il bene?’ ‘Noi non lo sappiamo, fratello’. ‘Allora se non sapete tutte queste cose, cari fratelli, c’è il rischio che banditi, uomini sanguinari e delinquenti nati entrino tra di voi.’ ‘Fratello Gotamo, non si può acquistare gioia con gioia: con dolore si può acquistare gioia. Se fosse possibile acquistare gioia con gioia, il re del Magadhâ, Seniyo Bimbisâro, potrebbe acquistare gioia perché lui sta meglio del mendicante Gotamo’. ‘Senza dubbio adesso gli onorevoli Niganthâ hanno parlato prematuramente e inconsideratamente, perché ora devo chiedervi: ‘Chi dei due sta meglio, il re del Magadhâ o il mendicante Gotamo?’ ‘ ‘Forse, fratello Gotamo, è come dici, ma lasciamo perdere. Ti preghiamo di rispondere alla tua stessa domanda.’ ‘Invece adesso voi dovete rispondere a questa domanda secondo il vostro parere: può il re del Magadhâ, senza muoversi, senza dire una parola, sentirsi perfettamente bene per sette giorni e sette notti?’ ‘No, fratello, non può’. ‘Può farlo per sei, cinque, quattro tre, due o per un solo giorno?’ ‘Egli non può, fratello.’ ‘Io però, senza muovermi, senza dir parola, posso sentirmi perfettamente non solo per un giorno e una notte, ma addirittura per sette giorni e sette notti. Che pensate, fratelli: sta meglio il re del Magadhâ o io?’ ‘Allora infatti l’onorevole Gotamo sta meglio del re del Magadhâ.’Così parlò il Sublime. Contento si rallegrò Mahânâmo dei Sakki della sua parola.

II PARTE - 05 (15) - LA MISURA (ANUMÂNASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta l’onorevole Mahâmoggallâno soggiornava nel territorio di Bhaggâ, presso la città Sumsumâragiram, nel parco da selvaggina della selva Bhesakalâ. E l’onorevole Mahâmoggallâno così si rivolse ai monaci: “Se un monaco chiede di essere ammonito perché ne ha bisogno, e con lui ci si trova male, e gli trovano delle manchevolezze, gli si riconoscono dei difetti; ed egli diventa impaziente e non accetta la lezione correttamente, allora i fratelli dell’ordine possono ritenerlo a stento meritevole di ammonizione, di ammaestramento, possono considerarlo non degno d’essere trattato con familiarità. Ma quali cose si dimostrano sfavorevoli? Un monaco è maligno ed è da ciò motivato, quella è una cosa sfavorevole. Oppure un monaco fa il superbo e ingiuria il prossimo; o è un collerico divorato dall’ira; o è iracondo e astioso; o iracondo e bestemmiatore; o si esprime con parole irose. Tutte queste sono cose sfavorevoli. E inoltre, fratelli: un monaco ammonito scatta contro l’ammonitore, o lo offende, o lo contraddice; oppure cambia discorso, si allontana dall’argomento e manifesta fastidio, avversione e sfiducia: ecco altre cose che sono sfavorevoli. E ancora: un monaco ad una ammonizione non riconosce d’aver errato; o è ipocrita e invidioso; o è geloso ed egoista; oppure è astuto e simulatore; o è ostinato e vano; o si interessa solo di ciò che ha davanti agli occhi, afferra con ambo le mani e difficilmente si fa distogliere: ecco ancora altre cose sfavorevoli. Se un monaco non chiede d’essere ammonito, ma con lui si sta bene, ci sono cose a lui favorevoli, è paziente ed accoglie la lezione in modo conveniente, allora i fratelli dell’ordine possono ben ritenerlo meritevole di ammonizione, di ammaestramento, possono stimare una tale persona degna di familiarità. Ma quali cose, fratelli, sono favorevoli? Un monaco non è maligno, non è stimolato da cattivi motivi, questa è una cosa favorevole. Un monaco non fa ancora, non è iracondo né bestemmiatore; non fa sentire irose parole: queste sono cose favorevoli. E inoltre se è ammonito non scatta contro l’ ammonitore; ammonito, non offende chi l’ammonisce e non lo contraddice; e non cambia discorso, non rivela fastidio, avversione e sfiducia: anche queste sono cose favorevoli. E ancora, ammonito non nega d’aver sbagliato; è libero da ipocrisia e invidia; è libero da gelosia ed egoismo; è libero da astuzia e simulazione; è privo di ostinazione e vanità; non prende in considerazione solo ciò che ha dinnanzi agli occhi, non arraffa con ambo le mani e facilmente si fa distogliere: ecco altrettante cose favorevoli. Ora, fratelli, un monaco deve esaminare se stesso in questo modo: ‘Una persona maligna che segue l’impulso di cattivi motivi, non mi è cara né gradita; ma se io fossi così, anch’io sarei malvisto e sgradito’. Avendo capito ciò, il monaco deve decidere di non voler essere maligno né seguire l ‘impulso di cattivi motivi. Lo stesso deve fare per l’insuperbirsi e l’ ingiuriare il prossimo; per l’essere iracondo e divorato dall’ira. Deve decidere di non voler essere iracondo e bestemmiatore; né iracondo nel parlare. Deve decidere di non ribellarsi a chi lo ammonisce, di non offenderlo, di non contraddirlo; di non sviare il discorso saltando da una cosa all’altra, né mostrare fastidio, avversione e sfiducia. Deve impegnarsi, ad una ammonizione, di non negare d’aver sbagliato; di non essere ipocrita e invidioso; di non essere geloso ed egoista; astuto e simulatore; ostinato e vanesio, interessato solo a ciò che è davanti ai suoi occhi; arraffatore con ambo le mani e difficile da distogliere. Se non si comportasse così egli sa che si renderebbe antipatico e sgradito a tutti. Ora, fratelli, un monaco ha da esaminare se stesso così: ‘Sono forse maligno e seguo l’impulso di cattivi motivi?’ Se riconosce di esserlo egli deve lottare per liberarsi da queste cose cattive e dannose. E altrettanto deve fare per liberarsi da tutte le altre cose dannose che sono già state più volte enumerate prima. Ma, fratelli, se il monaco nel suo esame non può più trovare in sé nessuna di queste dannose, cattive cose, allora egli ha da curare giorno e notte questo beata, serena consapevolezza di salute per mantenersi tale. Così come quasi, fratelli, una donna o un uomo, giovane, fiorente, avvenente, prova a osservare in uno specchio o in una pura, limpida, lucida superficie d’acqua l’immagine del proprio volto, e, se in essa scorge macchia o sporcizia, cerca di eliminarle; ma se non vede alcuna macchia né sporcizia, se ne rallegra; or così appunto, fratelli, un monaco che nota in sé tutte queste dannose, cattive cose, lotta per liberarsene. Ma se il monaco nel suo esame non può trovare più in sé nessuna di tutte queste dannose, cattive cose, allora egli ha da curare giorno e notte questo beato, sereno esercizio di salute.Così parlò l’onorevole Mahâmoggallâno. Contenti si rallegrarono quei monaci per le sue parole.

II PARTE - 06 (16) - LE ANGUSTIE DEL CUORE (CETOKHILASUTTAM)QUESTO HO SENTITO.

Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là egli si rivolse ai monaci: “Chi di voi, monaci, non ha perduto le cinque angustie del cuore e non ne ha reciso i cinque vincoli non può certo in quest’Ordine giungere alla riuscita, alla maturità e allo sviluppo. Quali sono i cinque affanni del cuore? Un monaco è incerto e dubita del maestro, non ne ha fiducia, perciò è avverso allo sforzo e alla fatica, non è costante. Ecco la prima angustia. Un monaco è incerto e dubita della dottrina, non ne ha fiducia, ed è avverso allo sforzo e alla fatica, non è costante. Ecco la seconda angustia. Dubita della comunità, non se ne fida. Ecco la terza. Dubita della regola. Ecco la quarta. Si secca e si duole dei suoi fratelli dell’Ordine, è abbattuto e angustiato. Ecco la quinta. Egli, per tutte queste angustie di cui non s’è liberato, è avverso allo sforzo e alla fatica, non è costante. Quali sono i cinque vincoli del cuore? Un monaco con la volontà non s’è spogliato della brama, del desiderio, dell’avidità, dell’arsura, della febbre e della sete. L’animo suo è avverso allo sforzo e alla fatica, non è costante. Lo stesso gli accade nel sentire e nel vedere. Al pasto ha mangiato tanto da soddisfare il suo stomaco, e si compiace di sedere, di giacere, di assopirsi nella comodità. Un monaco conduce una santa vita con l’intenzione di raggiungere qualche rinascita divina: “Con questi esercizi o voti, mortificazione o rinuncia, voglio diventare un dio!” Ecco i cinque vincoli che non sono stati recisi. Ora, chi di voi, monaci, ha perduto le cinque angustie del cuore e ha nettamente reciso i cinque vincoli del cuore, può in quest’Ordine ben giungere alla riuscita, alla maturità e allo sviluppo. Quali sono le cinque angustie che ha perduto? Non tentenna né dubita del maestro, ne ha fiducia; è incline allo sforzo e alla fatica, è costante. Non dubita della dottrina, non dubita della comunità, non dubita della regola, non si secca né si duole dei suoi fratelli dell’Ordine. E quali i cinque vincoli del cuore che costui ha reciso? Con la volontà s’è spogliato della brama, del desiderio, dell’avidità, dell’arsura, della febbre e della sete. Lo stesso è avvenuto nel sentire, nel vedere, nel nutrirsi e nel compiacersi di comodità nel sedersi, nel giacere e nell’ assopirsi. Inoltre ha condotto una santa vita senza l’intenzione di rinascere come un dio. Così facendo, col suo animo incline allo sforzo e alla fatica, costante, ha nettamente reciso tutti i vincoli del cuore, e può in quest’Ordine ben giungere alla riuscita, alla maturità e allo sviluppo.Egli raggiunge il mirabile sentiero prodotto dall’intensità della costanza e dal raccoglimento della volontà, della forza, dell’animo, dell’esame e dell’ eroismo. E questo monaco, divenuto quindici volte eroico, monaci, è capace della liberazione, capace del risveglio, capace di trovare l’incomparabile sicurezza. Così, a una chioccia che ha ben covato le sue uova, come potrebbe non venire il desiderio: “Ah, possano i miei pulcini, con le zampe e col becco, rompere il guscio; possano essi dunque felicemente liberarsi!”. E come quei pulcini che sono divenuti capaci di rompere il guscio e di liberarsi felicemente, così appunto un monaco, quindici volte eroico, è capace della liberazione, capace del risveglio, capace di trovare l’ incomparabile sicurezza.Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci della sua parola.

II PARTE - 07 (17) - SOLITUDINE SILVESTRE (VANAPATTHASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Savatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là il Sublime si rivolse ai monaci: “Vi voglio spiegare le specie della solitudine silvestre; fate attenzione. Un monaco vive in una solitudine silvestre e lì, ancora privo del sapere, non lo acquista, l’animo distratto non si raccoglie, l’inesausta mania non si estingue, egli non raggiunge l’ incomparabile sicurezza che ancora non possiede, e ciò di cui un asceta si serve per vivere: vesti, nutrimento, giaciglio e medicine per le malattie; stenta a trovarlo. Un monaco deve rendersene conto, deve subito, sia giorno o notte, lasciare quella solitudine, non rimanere. Un altro monaco vive in un’altra solitudine e non acquista il sapere di cui è privo, non trova il raccoglimento dell’animo distratto, non gli si estingue l’inesausta mania, non raggiunge l’incomparabile sicurezza che cerca, ma ciò di cui un asceta si serve per vivere: vesti, nutrimento, giaciglio, e medicine per curarsi; ne ha in abbondanza. Ed egli riflette: ‘Io non ho lasciato la casa per l’eremo in cerca di vesti, non per il giaciglio, né per le medicine. Eppure, mentre vivo qui in solitudine, non raggiungo il sapere, l’animo distratto non si raccoglie, l’inesausta mania non si estingue e non raggiungo l’incomparabile sicurezza’. Anche questo monaco deve, dopo un po’, lasciare questa solitudine, non rimanere. Un terzo monaco vive solitario nelle selve, ma acquista il sapere che gli mancava, riesce a raccogliere l’animo distratto, estingue l’inesausta mania, raggiunge l’incomparabile sicurezza, ma ciò che serve a un asceta per vivere: vesti, nutrimento, giaciglio e medicine; gli perviene in modo stentato. Questo monaco, rendendosi conto di tutto ciò, deve rimanere in questa solitudine per qualche tempo, non andar via. Un altro monaco vive nella stessa situazione di solitudine già detta, acquista sapere, raccoglie l’animo, estingue la mania, raggiunge la sicurezza e riesce a procurarsi quanto gli serve di vesti, nutrimento, giaciglio e medicine. Egli allora deve rimanere tutta la vita in tale solitudine, non andare via. Un monaco, invece, vive nei dintorni d’un villaggio, o di una città, o di una residenza, in compagnia di qualcuno, e si rende conto che non acquista sapere, non si raccoglie, non estingue la mania, non raggiunge la sicurezza, e ciò che serve a un asceta per vivere lo trova a stento; deve rendersene conto e deve, di giorno o di notte, senza neppure accomiatarsi da colui col quale vive, lasciarlo e andarsene, non rimanere. Un monaco vive in compagnia di un’altra persona, e s’accorge che non acquista sapere, non si raccoglie, non estingue la mania, non raggiunge la sicurezza, e ciò che serve a un asceta per vivere lo trova in abbondanza, deve rendersene conto, deve allontanarsi da quella persona, e, senza accomiatarsi, deve andarsene, non rimanere. Un monaco vive in compagnia di qualche persona e si accorge che acquista sapere, si raccoglie, estingue la mania, raggiunge la sicurezza, e ciò che serve a un asceta per vivere lo trova a stento, deve rendersene conto e deve rimanere per un po’ accanto a quella persone, non andare via. Un monaco che vive anche lui in compagnia d’un’altra persona e si accorge che acquista sapere, si raccoglie, estingue la mania, raggiunge la sicurezza, e ciò che serve a un asceta per vivere lo trova in abbondanza, deve rimanere per tutta la vita con quella persona, non deve andar via, se non è mandato via.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci per le sue parole.

M. 18 - IL BUON BOCCONE - MADHUPINDIKASUTTAM

Questo ho sentito. Un giorno soggiornava il Sublime nella terra dei Sakki, presso la citta’ di Kapilavatthu, nel parco dei fichi. E il sublime, per tempo approntato, prese mantello e scodella e s’avvio’ verso la citta’ per l’elemosina. Dopo che l’ebbe ricevuta, torno’ indietro, si cibo’, quindi si reco’ nella Grande Selva dove dimoro’ sotto un gruppo di alberi di bilva fino al tramonto. Ora Dandapani, un principe Sakko, per diporto era pervenuto nella Grande Selva, ivi incontro’ il Sublime al quale parlo’ cosi’: Cosa conosce ed annunzia l’asceta? Che il conoscitore, fratello, per nulla al mondo si turba, che non pone piu’ domanda, ha estirpato ogni disgusto e non brama piu’ ne’ esistenza, ne’ non esistenza, non aderiscono percezioni: questo conosco, questo annunzio. A tali parole il Sakko Dandapani abbasso’ il capo, fece vedere la lingua, sollevo’ i sopraccigli con tre rughe nella fronte e, appoggiato al suo bastone, ando’ via di la’. Ora, quando verso sera il Sublime ebbe finito la meditazione, si rivolse ai monaci e racconto’ loro il dialogo col Sakko Dandapani. A queste parole si volse uno dei monaci al Sublime e disse: E come, o Signore, il Sublime per nulla al mondo si turba, non aderiscono percezioni, come ha estirpato ogni disgusto e non brama ne’ esistenza ne’ non esistenza? Se le percezioni di differenza, o monaco, comunque anche determinate, si presentano secondo la serie all’uomo e non vi trovano incanto, ne’ eco, ne’ appoggio, allora e’ cio’ appunto la fine degli attaccamenti del piacere, del disgusto, della fede, del dubbio, della vanita’, della sete, dell’ignoranza, dell’infuriare della guerra, discordia, lite e contesa, menzogna e frode: cosi’ queste dannose, cattive cose, vengono totalmente disciolte. Cosi’ parlo’ il Sublime. Dopo queste parole si alzo’ dal suo posto e rientro’ nell’eremo. Allora quei monaci si dissero l’un l’altro: il Sublime, fratelli, ci ha dato questo insegnamento in breve sunto, senza trattarne estesamente; chi potrebbe ora trattare estesamente il contenuto di questa dottrina? E dissero tra di loro’: l’onorevole Mahakaccano viene dal Maesro stimato e dagli intelligenti fratelli dell’Ordine onorato, e sarebbe bene in grado di trattare estesamente questa dottrina; se ora dunque ci recassimo dall’onorevole Mahakacanno e lo pregassimo di esporcene il contenuto? Quei monaci si recarono dunque dall’onorevole Mahakaccano e gli esposero il breve sunto del Sublime pregando di esporre loro il contenuto. Cosi’ come, o fratelli, se un uomo che cerca legno lo andasse a cercare nel fogliame di un grande albero, cosi’ avete trascurato il Sublime ed aspettate da me la soluzione del tema. Eppure, fratelli, il Sublime e’ il Conoscitore, il Vate, l’Occhio, divenuto cognizione, verita’, santita’, egli e’ l’annunziatore, lo scopritore del contenuto, il largitore dell’immortalita’, il signore della verita’, il Compiuto. E vi era anche tempo perche’ voi poteste interrogare il Sublime stesso e serbare questo oggetto conforme alla spiegazione del Sublime. E’ vero, fratello Kaccano, tuttavia l’onorevole Mahakaccano e’ stimato dal Maestro, onorato dagli intelligenti fratelli dell’ordine, dunque e’ bene il caso che egli esponga estesamente il contenuto di quella dottrina data in breve dal Sublime. Allora dunque, fratelli, ascoltate e fate bene attenzione. Se le percezioni di differenza, comunque anche determinate, si presentano in serie all’uomo e non vi trovano incanto, ne’ eco, ne’ appoggio, allora cio’ e’ appunto la fine degli attaccamenti del piacere, del disgusto, della fede, del dubbio, della vanita’, della sete, dell’ignoranza, allora e’ la fine dell’infuriare e versare sangue, guerra, discordia, lite e contesa, menzogna e frode: cosi’ queste cose dannose vengono totalmente disciolte. Questa dottrina esposta in breve dal Sublime, io l’espongo estesamente cosi’: Mediante la vista e le forme ha origine la coscienza visiva; la combinazione delle tre origina il contatto, dal contatto e’ determinata la sensazione, quel che si sente si percepisce, quel che si percepisce si distingue, quel che si distingue si differenzia, quel che si differenzia, determinato da cio’, ci si presenta in serie come percezioni di differenza nelle forme di tempi passati, presenti e futuri, che penetrano nella coscienza visiva. Lo stesso per l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto, il pensiero. Ora, o fratelli, se non esiste vista, forma e coscienza visiva, non appare il contatto, se non appare il contatto, non appare la sensazione, se non appare la sensazione non appare la percezione, se non appare la percezione non appare la distinzione, allora non appariranno le percezioni di differenza presentantesi in serie. Lo stesso per udito, olfatto, gusto, tatto, pensiero. Cio’, o monaci, io considero come l’estesa esposizione di quella dottrina che il Sublime vi ha dato in breve compendio. Allora quei monaci, rallegrati dal discorso dell’onorevole Mahakaccano, si recarono dal Sublime e ripeterono cio’ che in tal modo era stato loro esposto dall’onorevole Mahakaccano. Sapiente, voi monaci, e forte di scienza e’ Mahakaccano: io stesso avrei spiegato l’oggetto precisamente cosi’ ed e’ cosi’ che voi dovete serbarlo. A queste parole l’onorevole Anando si rivolse al Sublime cosi’: Cosi’ come, o Signore, un uomo abbattuto da fame debolezza trovasse un buon boccone; se lo godesse, provasse grato gusto e soddisfazione; alla stessa stregua un monaco che s’e’ imposta la sua educazione spirituale a poco a poco rendendosi familiare col corso di questa dottrina, puo’ ben trovare appagamento e conseguire tranquillita’ di spirito. Che nome, dunque, deve avere il corso di questa dottrina? Allora, Anando, serba il corso di questa dottrina col nome del buon boccone. Cosi’ parlo’ il Sublime. Contento si rallegro’ Anando della parola del Sublime

II PARTE - 09 (19) - DUE SPECIE DI DELIBERAZIONI (DVEDHÂVITAKKASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là il Sublime si rivolse ai monaci: “Una volta, quando ancora non avevo conseguito il pieno risveglio e, da Bodhisatta, anelavo solo ad esso, mi venne questo pensiero: ‘Se io ora dividessi il mio pensare in due parti contrapposte?’. E allora divisi da un lato il pensiero dell’insistere, del danneggiare e dell’ infuriare, e dall’altro il pensiero del rinunciare, del non danneggiare e del non infuriare. Ora, quando in questo sforzo serio, solerte, impegnativo, mi si presentava il pensiero dell’insistere, del danneggiare o dell’infuriare, mi dicevo: ‘Mi si sono presentati i pensieri dell’insistere, del danneggiare o dell’infuriare, ma essi limitano se stessi, limitano altri pensieri, limitano entrambi, distolgono dalla sapienza, portano turbamento, non conducono all’estinzione, sono limitanti’. E mentre pensavo ciò l’ insistere, il danneggiare e l’infuriare si dissolvevano. Ciò che un monaco considera e pondera a lungo, influenza la mente. Se considera e pondera di insistere, allora ha ripudiato quella del rinunciare, ha accresciuto la decisione di insistere, e il suo cuore è influenzato da tale decisione. Lo stesso accade se a lungo delibera e pondera di danneggiare o di infuriare: il cuore è influenzato da tali decisioni. Quando un mandriano, nell’ultimo mese della stagione delle piogge, in autunno, quando la messe è raccolta, raduna le sue mandrie, sollecita e spinge i buoi qua e là e li porta alle stalle, perché lo fa? Perché altrimenti il mandriano dovrebbe attendersi inconvenienti o perdite, disgrazie o danni: allo stesso modo io vidi la miseria, la bassezza, la sozzura di ciò che è dannoso, e l’utile effetto di ciò che è salutare nella rinunzia. Quindi, allorché in questo sforzo serio, solerte, impegnativo, mi si presentava la decisione di rinunziare, io mi dicevo: ‘Ho deciso di rinunziare: ciò non mi limita, non limita gli altri, non limita nessuno, promuove la sapienza, non porta turbamento, conduce all’estinzione. Se ora decidessi la rinunzia e la esaminassi di giorno e di notte, non trovando in essa nulla di temibile, ma continuassi a considerare ed esaminare a lungo tale decisione, il corpo si stancherebbe, col corpo stanco il cuore s’ infiacchirebbe, e il cuore fiacco non favorisce il raccoglimento’. Quindi, monaci, io raccoglievo strettamente il mio cuore, lo placavo, lo riunivo, lo rafforzavo perché non si indebolisse. Allorché in questo sforzo serio, solerte, impegnativo, mi si presentava la decisione di non danneggiare, di non infuriare, io pensavo e facevo le stesse cose. Ciò che un monaco considera e pondera a lungo, influenza la mente. Se considera e pondera di rinunziare, allora egli ha ripudiato la considerazione dell’insistere, ha accresciuto la considerazione del rinunziare, e il suo cuore è influenzato da tale decisione. Lo stesso accade per la deliberazione di non danneggiare e di non infuriare. Come quando un mandriano, nell’ultimo mese dell’estate, quando la messe nei campi tutt’intorno è in piena maturazione, deve guardare le sue mandrie e fare bene attenzione nel bosco come sul prato; così dovevo fare anch’io bene attenzione alle mie cose. Ferrea era però la mia forza, inflessibile; presente il sapere, irremovibile; placato il corpo, impassibile; raccolto l’animo, unificato. E io restavo, monaci, lontano da brame, lontano da cose non salutari, in sentita, pensante, nata da pace beata serenità, nella prima contemplazione. Dopo il compimento del sentire e pensare io raggiunsi con l’interna calma, l ‘unità dell’animo, la beata serenità libera di sentire e pensare, nata dal raccoglimento, la seconda contemplazione. In serena pace io restavo equanime, savio, chiaro cosciente, provavo nel corpo la felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’; così raggiunsi la terza contemplazione. Dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza di prima, io raggiunsi la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, quarta contemplazione. Con tale animo, saldo, purificato, terso, schietto, libero da scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, io indirizzai l’animo alla memore conoscenza di anteriori forme di esistenza. E mi ricordai di molte diverse anteriori forme di esistenza. Una vita, due, tre, quattro, cinque vite; dieci vite, venti, trenta, quaranta, cinquanta vite; poi di cento, mille, centomila vite; poi delle epoche durante parecchie formazioni e trasformazioni di mondi. ‘Là ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, quella la mia attività, provai tale bene e tale male, così finì la mia vita; trapassato di là, io entrai altrove di nuovo in esistenza: ora ero qua, avevo questo nome, appartenevo a questa famiglia, questo era il mio stato, questa la mia attività, provai tale bene e male, così fu la fine della mia vita; . Così io mi ricordai di molte diverse anteriori forme d’esistenza, ognuna coi propri contrassegni, ognuna con le sue speciali relazioni. Questa prima conoscenza, monaci, io l’avevo conquistata nelle prime ore della notte, dissipata l’ignoranza, acquistata la conoscenza, dissipata la tenebra, acquistata la luce, mentre io rimanevo in così serio, solerte, impegnativo sforzo. Con tale animo, saldo, purificato, terso, schietto, libero da scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, io indirizzai l’animo alla cognizione dello sparire e apparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno io vidi gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici e infelici; io riconobbi come gli esseri riappaiono sempre secondo le azioni. ‘Questi cari esseri sono certo non retti in azioni, in parole, in pensieri, biasimano ciò che è salutare, stimano ciò che è dannoso, fanno ciò che è dannoso; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi giungono giù, su cattivi sentieri, alla perdizione, in un mondo infernale. Quest’altri esseri però che sono retti in azioni, parole, pensieri, non biasimano ciò che è salutare, stimano e fanno ciò che è retto; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono su buoni sentieri, in un mondo celeste. Ciò vidi io. Questa è la seconda conoscenza che io avevo conquistata nelle ore mediane della notte, dissipata l’ignoranza, acquistata la scienza, dissipata la tenebra, acquistata la luce mentre il mio sforzo continuava. Con tale animo io indirizzai l’animo alla cognizione dell’estinguersi della mania. ‘Compresi conforme a verità: questo è il dolore, questa è la sua origine, questo è il suo annientamento e questa è la via che porta al suo origine, questo il suo annientamento e questa la via che porta al suo annientamento’. Così riconoscendo, così vedendo, il mio animo fu redento dalle manie del desiderio, dell’esistenza, dell’errore. Sorse questa conoscenza: ‘Nel redento è la redenzione. Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo.’ Questa, monaci, è la terza conoscenza che avevo conquistata nelle ultime ore della notte. Così come se un grosso branco di selvatici di una boscosa valle fosse giunto ad un vasto suolo paludoso; e un cert’uomo che volesse il male dei selvatici, che tramasse contro di essi perdizione e danno, per questo sbarrasse loro la via sicura, favorevole, giusta da percorrere, e lasciasse aperta la via sbagliata che conduce alla palude e là li facesse finire: allora il grosso branco presto sparirebbe, non potrebbe sopravvivere. Se invece un altro uomo, impietosito per il branco, che pensasse al suo bene e alla sua salvezza, indicasse la via verso la salvezza e sbarrasse l’altra via, sprangasse i valichi verso la palude e allontanasse di là gli animali: allora il branco si salverebbe, crescerebbe, fiorirebbe e prospererebbe. Questo che vi ho fatto è un paragone il cui senso è questo: il vasto suolo paludoso indica il desiderio; il grosso branco di selvatici indica la comunità dei viventi; l’uomo malvagio indica la natura maligna; la via errata, monaci, è il contrario dell’ottuplice sentiero ossia falso sentiero, false conoscenza, intenzione, parola, azione, vita, falsi sforzo, sapere e raccoglimento. I valichi verso la palude indicano il piacere della soddisfazione; l’andare verso la palude indica l’ignoranza. Ma l’uomo pietoso che pensa al bene, alla salvezza, monaci, indica il Compiuto, il Santo, perfetto Svegliato. E la via sicura che è favorevole, che porta alla salvezza indica il santo sentiero ottopartito. E così, monaci, ho indicato la via sicura, favorevole, lieta da percorrere, ed ho sbarrata la via maligna, ho sprangato i valichi che portano alla palude, ho impedito l’andare nella palude. Ciò che un maestro, per amore e simpatia, mosso da compassione, deve ai discepoli, voi lo avete da me ricevuto. Qui, monaci, vi invitano gli alberi, e là vuoti eremi. Operate contemplazione, monaci, per non diventare negligenti, per non dovervene poi pentire: questo è il nostro precetto.Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci per le sue parole.

II PARTE - 10 (20) - SVANIRE DELLE DELIBERAZIONI (VITAKKASANTHÂNASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là il Signore si rivolse agli uomini: “Chi tende all’alto, monaci, deve di tempo in tempo tenere presenti cinque specie di idee. Se un monaco concepisce o si raffigura un’idea, e facendo ciò sorgono in lui deliberazioni nocive e indegne, immagini di brama, di avversione e di accecamento, allora il monaco deve passare a un’altra idea, a una immagine degna. Così facendo si disperdono, si dissolvono le deliberazioni nocive e indegne, le immagini di brama, di avversione e di accecamento; cosicché l’intimo cuore si rinsalda, si calma, diviene unito e forte. Così come un abile muratore o garzone muratore con un cuneo sottile può estrarre e espellerne uno grosso, così un monaco con un’idea degna e valida può scacciarne un’altra nociva e indegna. Se nel farlo sorgono ancora in lui deliberazioni nocive e indegne, immagini di brama, di avversione e di accecamento, allora egli deve considerare la miseria di tali deliberazioni indegne, dannose, che provocano dolore. Nel farlo esse si disperdono, si dissolvono, e il cuore si rinsalda, si calma, avvenenti potrebbero spaventarsi se fosse loro legata al collo una carogna di serpe, di cane o una carogna umana; allo stesso modo un monaco che nel suo sforzo di elevarsi vedesse sorgere ancora in lui deliberazioni nocive e indegne, immagini di brama, di avversione e di accecamento, dovrebbe nel considerarne la miseria, vederle disperdersi, dissolversi. Se in costui, mentre considera la miseria di quelle deliberazioni, sorgono accecamento, egli non deve concedere loro alcun senso, alcuna attenzione. Nel farlo esse scompaiono, e, avendole superate il suo cuore si rinsalda, si calma, diventa unito e forte. Così come un uomo di buona vista che non voglia badare a fenomeni penetranti nel suo spazio visivo, può chiudere gli occhi o guardare altrove; altrettanto può un monaco non concedere a quelle considerazioni alcun senso, alcuna attenzione. Così facendo egli le vedrebbe sparire, e, avendole superate, il cuore gli si rinsalderebbe, si calmerebbe, diverrebbe unito e forte. Se in costui, quantunque egli non conceda a quelle considerazioni alcun senso, alcuna attenzione, sorgono altre deliberazioni nocive e indegne, egli deve farle svanire una dopo l’altra, in serie. Mentre lo fa le deliberazioni si disperdono, si dissolvono. Così come se un uomo camminasse in fretta e gli venisse il pensiero: ‘ Perché sto camminando in fretta? Voglio andare più adagio ‘. E, mentre va più adagio, gli venisse il pensiero: ‘ Ma perché cammino anzitutto? Voglio rimanere fermo ‘. E, essendo fermo, pensasse: ‘ Perché sto in piedi? Mi siederò ‘. E, essendo seduto, pensasse: ‘ Perché dovrei solo sedermi? Mi voglio distendere ‘. E se si distendesse egli avrebbe tralasciato i movimenti più accentuati e avrebbe progressivamente attuato quelli meno accentuati; alo stesso modo un monaco, se, a dispetto del suo disprezzo e rigetto di quelle considerazioni, sorgono ancora in lui deliberazioni nocive e indegne, deve farle sparire una dopo l’altra, in serie. Se ancora una volta, mentre egli fa svanire una dopo l’altra quelle deliberazioni, ne sorgono delle altre, egli deve, a denti stretti e lingua aderente al palato, con la volontà, sottoporre, comprimere e abbattere l’ animo. Mentre lo fa le cattive deliberazioni scompaiono e, poiché egli le ha superate, si rinsalda l’intimo cuore, si calma, diviene unito e forte. Se dunque, monaci, in uno di voi, nel concepire un’idea, nel raffigurarsi un ‘idea, sorgono deliberazioni nocive e indegne, immagini di brama, di avversione e di accecamento ed egli passa ad un’altra immagine degna; se poi egli considera la miseria di quelle deliberazioni; non concede a quelle deliberazioni alcun senso, alcuna attenzione; le fa svanire una dopo l’ altra; e, a denti strette e lingua aderente al palato, con la volontà domina l’animo, lo comprime, lo abbatte, le deliberazioni nocive e indegne, le immagini di brama, di avversione e di accecamento si disperdono, si dissolvono, e, poiché le ha superate, si rinsalda l’intimo cuore, si calma, diviene unito e forte. Costui, monaci, viene chiamato signore sulle specie delle deliberazioni. Quale deliberazione vuole, quella avrà; quale deliberazione non vuole, quella non l’avrà. Egli ha spento la sete, respinto i vincoli, con la completa conquista della mania ha messo fine al dolore.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della sua parola.

III PARTE - 01 (21) - IL PARAGONE DELLA SEGA (KAKACÛPAMASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Proprio allora l’ onorevole Moliyaphagguno si tratteneva in un momento inopportuno in compagnia delle monache, e, se qualcuno dei monaci biasimava davanti a lui quelle monache, egli, indispettito e irritato, reagiva subito con un rimprovero; e, se, qualcuno dei monaci biasimava l’onorevole Moliyaphagguno davanti alle monache, esse, ugualmente indispettite e irritate, reagivano allo stesso modo. Allora un monaco si recò dal Sublime, lo salutò riverentemente, si sedette accanto e gli riferì l’accaduto. Il Sublime allora chiese a un monaco di andare da Moliyaphagguno e di dirgli che desiderava vederlo. Quando egli giunse, il Sublime gli disse ciò che gli era stato riferito e gli chiese se era vero. Moliyaphagguno rispose che sì, era vero. Il Sublime gli chiese: “Non hai tu dunque, come un nobile figlio mosso da fiducia, lasciato la casa per l’eremo?” Avendogli Moliyaphagguno risposto di sì, il Sublime continuò: “Non sta bene che tu abbia fatto ciò che mi è stato riferito, devi smettere di reagire e devi ben esercitarti così: ‘Non deve l’animo mio essere turbato, nessuna parola cattiva deve sfuggire dalla mia bocca, voglio rimanere amichevole e compassionevole, con animo amorevole, senza segreta malizia’. Perciò se anche qualcuno in tua presenza battesse con pugni quelle monache, tirasse loro pietre, le battesse con mazze, le colpisse con spade allora tu, Phagguno, dovrai evitare tutti i moti volgari, tutte le decisioni volgari, e dovrai esercitarti nel modo che ti ho detto. Lo stesso se qualcuno vuole biasimarti, e ancora lo stesso se qualcuno ti battesse con pugni, ti gettasse pietre, ti bastonasse con mazze, ti colpisse con spade.” E ora il Sublime si rivolse ai monaci: “Una volta i monaci mi venivano incontro con fiducia, e io mi rivolgevo ad essi dicendo: ‘Io prendo solitario pasto, e, così facendo, conservo salute e freschezza, validità, forza e benessere. Fate anche voi come me, e ne avrete gli stessi benefici’ . E a quei monaci non occorreva altra esortazione da me, solo il loro sapere era da svegliare. Come se sopra un buon terreno, all’imbocco di quattro strade, fosse pronto un eccellente attacco, fornito della relativa frusta; e un maestro dell’arte di guidare, un esperto auriga, salisse su questo carro, prendesse le redini con la sinistra, la frusta nella destra, e andasse come gli pare e piace qua o là: così appunto quei monaci non avevano bisogno di alcuna esortazione da me: solo il loro sapere era da svegliare. Perciò, monaci, rinnegate il dannoso, siate costanti in ciò che è salutare, perché così anche voi, in questo ordine, giungerete alla riuscita, alla maturità e allo sviluppo. Come se, nelle vicinanze d’un villaggio o d’una città, vi fosse un fitto bosco pullulante di arbusti di ricino, e uno si impietosisse degli alberi e si mettesse a prendersene cura: tagliasse i tronchi curvi e secchi, li portasse via e tenesse netta la selva ben diboscata, curasse attentamente i tronchi diritti, ben cresciuti; certamente tale selva giungerebbe alla riuscita, alla maturità e allo sviluppo: così anche voi, monaci, rinnegate il dannoso, siate costanti in ciò che è salutare, e riuscirete. Una volta viveva qui in Sâvatthî un massaia di nome Vedehikâ. Essa, che godeva buona fama d’essere mite e pacifica, aveva una serva di nome Kâlî che, lesta e diligente, svolgeva bene le sue diverse faccende. Alla serva venne un dubbio: ‘La mia padrona gode certo di buona fama, ma nasconde solo internamente la sua bile, o ne è priva? Forse io faccio tutte le mie faccende così bene che la padrona non può mostrare il brutto carattere che ha? Voglio proprio, almeno una volta, mettere la mia padrona alla prova!’ La serva allora, il mattino seguente, si alzò a giorno fatto. La padrona le chiese come mai. La serva rispose che a lei non importava. La massaia, incollerita e sdegnata, con le sopracciglia corrugate replicò che invece a lei importava. Ma la serva volle mettere la padrona a più forte prova, e si alzò ancora più tardi. Vi fu un altro duro scontro verbale. Per vedere fino a che punto la padrona avrebbe davvero perso la pazienza, Kâlî si alzò ancora più tardi di prima. La padrona, esasperata, afferrò il paletto della porta e glielo tirò sulla testa. La serva Kâlî, con la testa rotta, grondante sangue, corse dai vicini, e gemendo si lamentava: ‘Guardate, brava gente, l’opera della mite, della pacifica; guardate cosa passa una serva sotto un stimata padrona.’ E alla massaia venne ora una brutta fama: ‘Violenta è la massaia Vedehikâ, furiosa, manesca è la massaia Vedehikâ!’ Così, monaci, accade che un monaco è dolce, mite e pacifico quando lo toccano modi di parlare graditi; ma se i modi sono sgraditi deve ugualmente mostrarsi dolce, mite e pacifico. Io non chiamo mite il monaco che diviene mite, che guadagna mitezza se gli vengono offerte vesti, elemosine, giaciglio e, in caso di malattia, medicine, perché non sarebbe mite se nulla gli fosse offerto. Però un monaco che stima, onora e pregia la verità, e per questo diviene mite, quello io lo chiamo mite. Così devono esercitarsi i monaci a sopportare. Vi sono cinque specie di modi di parlare che le persone che vi stanno davanti possono usare: tempestivo o intempestivo, sensato o insensato, civile o villano, conveniente o sconveniente, amorevole o maligno. Le persone possono parlare in tutti questi modi, quindi voi, monaci, dovete ben esercitarvi a non esserne turbati, a non lasciar sfuggire dalla bocca nessuna cattiva parola, a rimanere amichevoli e compassionevoli, con animo amorevole, senza segreta malizia. E dovete esercitarvi a irradiare la persona che vi sta davanti con animo amorevole, e poi, cominciando da quella, a irradiare il mondo intero con animo amorevole, con animo ampio, profondo, illimitato, privo di rabbia e rancore. Come se arrivasse un uomo provvisto di zappa e cofano e dicesse di voler sterrare l’intera terra, e scavasse qua e là, rimuovesse qua e là, dicendo più volte: ‘Senza terra devi tu divenire.’ Cosa ne pensate? Potrebbe forse quell’uomo sterrare la terra?” “Certamente no, Signore! La terra è ben profonda, immensa, non la si può sterrare per quanto quell’uomo voglia affaticarsi e darsi da fare.” “Così appunto le persone possono servirsi di cinque modi di parlare [impossibili da eliminare], ma voi monaci dovete ben esercitarvi nel modo che poc’anzi vi ho indicato. Come se arrivasse un uomo provvisto di lacca o curcuma, indaco o carminio, e dicesse: ‘Io disegnerò nel cielo delle figure, dipingerò un quadro’. Vi sembra possibile?” “Certamente no, Signore! Il cielo è informe, invisibile, non vi si può disegnare una figura, dipingere un quadro, per quanta fatica e impegno quell‘uomo possa metterci.” “ Così appunto le persone possono servirsi di cinque modi di parlare, ma voi monaci dovete ben esercitarvi nel modo che vi ho già indicato. Come se arrivasse un uomo provvisto di un fascio di paglia acceso, e dicesse: ‘Con questa fascina accesa farò evaporare il Gange, completamente.’ Vi pare che ci riuscirebbe?” “Certamente no. Il Gange è profondo, smisurato, non ci riuscirebbe mai.” Oppure se vi fosse un mantice di pelle di gatto, ben conciato, morbido, e arrivasse un uomo con una pietra o un bastone, e dicesse: ‘Riporterò in vita e in forza questa pelle di gatto.’ Potrebbe?” “Certamente no. Con una pietra o un bastone non potrebbe assolutamente!’ “O ancora, monaci, se briganti e assassini con una sega da alberi vi staccassero articolazioni e membra, chi per questo provasse furore non adempirebbe il mio insegnamento. Quindi voi monaci dovete ben esercitarvi a non essere turbati, a non lasciar sfuggire dalla bocca nessuna cattiva parola, a rimanere amichevoli e compassionevoli, con animo amorevole, senza segreta malizia. E dovete esercitarvi a irradiare chi vi sta davanti, con animo amorevole, e poi, cominciando da quella, a irradiare il mondo intero con animo amorevole, con animo ampio, profondo, illimitato, privo di rabbia e rancore. Di questo insegnamento col paragone della sega vogliate voi spesso ricordarvi. Sapete, monaci, di un modo di parlare che ora non potreste sopportare?” “Veramente no, Signore!” “Perciò, dunque, ricordatevi spesso di questo insegnamento col paragone della sega: esso vi riuscirà largamente di bene, di salute.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci delle sue parole.

M. 22 - IL PARAGONE DEL SERPE ALAGADDUPAMASUTTAM

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime presso Savatti, nella selva del Vincitore. In quel tempo un monaco a nome Arittho, gia’ cacciatore di avvoltoi, aveva manifestato la seguente falsa opinione: Cosi’ intendo io la dottrina annunziata dal Sublime, che quelle azioni designate dal Sublime come dannose, non riescono necessariamente a danno di chi le fa. Ora venne a molti monaci agli orecchi cio’ che Arittho diceva, andarono presso di lui e gli chiesero se era vero che egli avesse concepito tale falsa opinione. Avutane conferma, quei monaci vollero distogliere Arittho dalla sua falsa opinione, gli si volsero, gli parlarono, lo ammaestrarono: Non parlare cosi’, fratelo Arittho, non correggere il Sublime, non e’ bene correggere il Sublime, non puo’ il Sublime aver detto cio’. In varia guisa, fratello Arittho, vennero spiegate dal Sublime le azioni dannose, ed esse riescono necessariamente di danno a chi le fa. Inappaganti sono le brame, ha detto il Sublime, piene di dolore, piene di spasimo: la miseria prepondera. Ad ossa spolpate ha paragonato il Sublime le brame: a brani di carne; a paglia infiammata; a carboni accesi; a visioni di sogno; ad accattonaggio; a frutti d’albero; a tagli di spade; a punte di lance; simili a fauci di serpi sono le brame, piene di dolore, piene di spasimo, la miseria prepondera.* Ma Arittho il monaco, gia’ cacciatore di avvoltoi, sebbene cosi’ sollecitato, ammonito ed ammaestrato, si tenne tenacemente fermo nella sua opinione. Ora, quando i monaci videro che non potevano distogliere Arittho dalla sua falsa opinione, si recarono dal Sublime, gli dissero delle false opinioni di Arittho e di come essi avevano tentato di distoglierlo. Allora il Sublime disse ad uno dei monaci di chiamare il fratello Arittho. Quando fu al Suo cospetto, gli parlo’ cosi’: E’ vero Arittho, che tu hai concepito tale falsa opinione: cosi’ comprendo io la dottrina annunciata dal Sublime, che quelle azioni designate dal Sublime come dannose, non riescono necessariamente di danno a chi le fa? Cosi’ e’ sicuro: io, o Signore, comprendo la dottrina in questo modo. Da chi tu dunque, hai sentito, uomo vano, che io abbia annunziata una tale dottrina? Non ho io, o uomo vano, in varia guisa spiegato le azioni dannose, ed esposto che esse riescono necessariamente di danno a chi le fa? Ed il Sublime si volse ai monaci: Comprendete anche voi, o monaci, l’annunziata dottrina cosi’, come l’intende questo monaco Arittho, che malintesamente ci corregge e scava a se stesso la fossa e si crea grave danno? Non cosi’ o Signore! In varia guisa il Sublime ci ha ben spiegato le azioni dannose ed esposto come esse necessariamente riescono di danno a chi le fa. Inappaganti sono le brame, ha detto il Sublime, piene di dolore, piene di spasimo: la miseria prepondera. Bene, voi monaci, bene che voi comprendiate cosi’ l’annunziata dottrina. Ma vi sono, voi monaci, anche uomini vani che apprendono la dottrina; quantunque abbiano appreso la dottrina, essi non ricercano con sapienza il senso della dottrina: per cui le dottrine non forniscono loro alcun sapere. Essi non imparano le dottrine se non per poter esprimere su di esse discorsi ed opinioni. Lo scopo, per cui apprendono le dottrine, essi non lo scorgono. A costoro le male apprese dottrine riescono largamente di danno e di dolore, perche’ essi hanno afferrato male le dottrine. E’ come se, o monaci, un uomo che brama serpi, esce per serpi, cerca serpi, trovasse un possente serpe e l’afferrasse per il corpo o la coda: il serpe si scaglierebbe su di lui e lo morderebbe alla mano, al braccio o in un altro membro, sicche’ l’uomo ne patirebbe la morte o mortale dolore. Ma vi sono, o monaci, anche nobili figli che apprendono le dottrine e ricercano con pazienza il senso delle dottrine, e queste forniscono loro il sapere. Essi non imparano le dottrine solo per poter esprimere su di esse discorsi ed opinioni, ma scorgono lo scopo delle dottrine che, in questo modo, riescono loro largamente di vantaggio, di salute, perche’ hanno afferrato bene le dottrine. E’ come se, o monaci, un uomo che brama serpi, cerca serpi, esce per serpi, trovasse un possente serpe e con un bastone forcuto lo abbattesse quindi lo pigliasse stretto per il collo: anche se il serpe col suo corpo avvinghiasse mano o braccio od altro membro dell’uomo, non per questo l’uomo avrebbe da temere morte ne’ mortale dolore, perche’ egli ha afferrato bene il serpe. Percio’, voi monaci, cio’ che voi del senso del mio discorso intendete, quello serbate fedelmente, ma cio’ che non intendete, quello debbo discuterlo con voi affinche’ vi siano monaci bene istruiti. Come zattera, voi monaci, voglio mostrarvi la dottrina, atta a salvarsi, non a tenere. Ascoltate e fate bene attenzione. Cosi’ come se un uomo in cammino pervenisse ad una grande distesa d’acqua, la riva di qua piena di pericoli e paure, la riva di la’ sicura e senza pericoli, e non vi fosse nessuna barca per il traghetto, nessun ponte. Se quest’uomo pensasse: se io ora raccogliessi canne e tronchi, foglie e fascine e costruissi una zattera e mediante questa tragittassi sull’altra riva? E, costruita la zattera, tragittasse in salvo sull’altra riva e pensasse cosi’: carissima mi e’ veramente questa zattera che mi ha portato in salvo sull’altra riva; e se io ora mi ponessi sul capo questa zattera o me la caricassi sulle spalle, e me ne andassi dove voglio; che pensate voi di cio’, monaci? Quest’uomo con tale agire tratterebbe forse convenientemente la zattera? Certamente no, o Signore! Se quest’uomo salvato, tragittato, riflettesse cosi’: carissima mi e’ veramente questa zattera che mi ha portato in salvo sull’altra riva; e se io ora posassi questa zattera sulla riva o la gettassi nell’onda e me ne andassi dove voglio; con tale agire veramente, voi monaci, tratterebbe convenientemente la zattera. In questo modo, voi monaci, io ho esposto la dottrina come zattera, atta a salvarsi, non a tenere. Voi che il paragon della zattera bene intendete anche il giusto, taccio l’ingiusto, lasciare dovete. Sei false dottrine, voi monaci, vi sono: l’inesperto uomo comune dei santi inconsapevole, ignaro, estraneo alla dottrina, dei nobili inconsapevole ignaro ed estraneo alla dottrina dei nobili, considera il corpo; la sensazione; la percezione; le distinzioni; cio’ che e’ visto, sentito, pensato, riconosciuto, raggiunto, esaminato, ricercato nello spirito; la dottrina che insegna: cio’ e’ il mondo, cio’ e’ l’anima, cio’ diverro’ io dopo la mia morte, imperituro, persistente, eterno, immutabile, eternamente eguale, certo cosi’ io rimarro’; di tutte queste cose egli ritiene: cio’ mi appartiene, cio’ sono io , cio’ e’ me stesso. L’esperto santo uditore pero’, voi monaci, di tutte queste cose egli ritiene: cio’ non mi appartiene, cio’ non sono io, cio’ non e’ me stesso. Considerando cosi’ le cose egli non conosce alcun irragionevole tremore. A queste parole si volse uno dei monaci al Sublime: Puo’ forse sopravvenire irragionevole tremore per ragioni esteriori? Puo’ essere, o monaco, - disse il Sublime - per esempio, un uomo viene in questo stato d’animo: Io l’ho perduto, ahime’, non lo posseggo piu’! Oh l’avessi io di nuovo! Ah, non l’otterro’ mai piu’! Egli e’ triste, affranto, si lagna, si batte gemendo il petto e cade in disperazione. Cosi’ o monaco, sopravviene irragionevole tremore per ragioni esteriori. E puo’ forse, o Signore, cessare irragionevole tremore per ragioni esteriori? Puo’ essere, o monaco, - disse il Sublime - un uomo non viene in questo stato d’animo: Io l’ho perduto, ahime’ non lo posseggo piu’! Oh, l’avessi io di nuovo! Ah, non l’otterro’ mai piu’! Ed egli non e’ triste, non affranto, non si lagna, non si batte gemendo il petto e non cade in disperazione. Cosi’ o monaco, cessa irragionevole tremore per ragioni esteriori. Ma puo’, o Signore, sopravvenire irragionevole tremore per ragioni interiori? Puo’ essere, o monaco, - disse il Sublime - per esempio un uomo crede: cio’ e’ il mondo, cio’ e’ l’anima, cio’ diverro’ io dopo la mia morte, imperituro, persistente, eterno, immutabile, eternamente eguale, certo cosi’ io rimarro’. Egli sente dal Compiuto o da un discepolo l’annunzio della dottrina, che distrugge dalle fondamenta ogni attaccamento e soddisfazione in false dottrine, dogmi e sistemi, che mena alla distruzione di ogni esistenza, al distacco da ogni attaccamento alla vita, all’annientamento della sete di vivere, alla fine della manìa, alla dissoluzione, all’estinzione. Allora egli viene in tale stato d’animo: Io periro’, io finiro’, ahime’! non saro’ piu’. Egli e’ triste, affranto, si lagna, si batte gemendo il petto e cade in disperazione. Cosi’ o monaco, sopravviene irragionevole tremore per ragioni interiori. E puo’ forse, o Signore, cessare irragionevole tremore per ragioni interiori? Puo’ essere, o monaco, se un uomo crede in false dottrine, ma poi sente dal Compiuto o da un discepolo l’annunzio della dottrina che distrugge dalle fondamenta ogni attaccamento e soddisfazione in false dottrine, e percio’ egli non viene in tale stato d’animo: Io periro’, io finiro’ ahime’! io non saro’ piu’. Ed egli non e’ triste, non affranto, non si lagna, non si batte gemendo il petto, non cade in disperazione. Cosi’, o monaco, cessa irragionevole tremore per ragioni interiori. Potete, voi monaci, conseguire un bene, il cui possesso rimanga imperituro, persistente, eterno, immutabile, eternamente uguale e costante? Conoscete, voi monaci, un tale bene? Veramente no, o Signore! Bene, voi monaci, anche io non conosco un tale bene. Siete voi forse, o monaci, aderenti ad una fede in immortalita’, per la quale il fedele venga redento da affanno, miseria, dolore, strazio e disperazione? Veramente no, o Signore! Bene, anche io non conosco una tale fede. Seguite voi forse una scuola mediante la quale il seguace venga preservato da affanno, miseria, dolore, strazio e disperazione? Veramente no, o Signore! Bene, anch’io non conosco una tale scuola. Se l’Io stesso, voi monaci, esistesse, potrebbe allora anche darsi un: a me proprio? Si, o signore. Se il Proprio, voi monaci, esistesse, potrebbe allora anche darsi un: Me Stesso? Certamente, Signore. Siccome ne’ l’Io, ne’ il Proprio puo’ veramente e realmente essere conseguito, che n’e’ del dogma che insegna: cio’ e’ il mondo, cio’ e’ l’anima, cio’ diverro’ io dopo la morte, imperituro, persistente, eterno, immutabile, eternamente eguale, certo cosi’ io rimarro’; non e’ cio’ o monaci, una ben maturata dottrina di stolti? Che pensate, voi monaci, il corpo, la sensazione, la percezione, le distinzioni, la coscienza, sono mutabili o immutabili? Mutabili, Signore. Ma cio’ che e’ mutabile, e’ doloroso o piacevole? Doloroso, Signore! Ma cio’ che e’ mutabile, doloroso, caduco, si puo’ di esso con diritto dire: cio’ mi appartiene, cio’ sono io, cio’ e’ me stesso? Veramente no, o Signore. Percio’ o monaci, tutto cio’ che v’e’ del corpo, delle sensazioni, percezioni, distinzioni, coscienza, passate presenti e future, proprie od estranee, grosse o fini, volgari o nobili, lontane e vicine, tutte sono da considerarsi, conforme a verita’, con perfetta sapienza, cosi’: cio’ non mi appartiene, cio’ non sono io, cio’ non e’ me stesso. Cosi’ vedendo, voi monaci, l’esperto santo uditore, diviene sazio del corpo, della sensazione, della percezione, delle distinzioni, della coscienza. Sazio, rinunzia. Con la rinunzia, si redime. Nel redento e’ la redenzione, questa cognizione sorge. Esausta e’ la vita, compiuta la santita’, operata l’opera, non esiste piu’ questo mondo, comprende egli allora. Un tale monaco viene allora chiamato Scardinatore, Colmatore della Fossa, Strappatore della Freccia, Sganciato, Distaccato. E perche’ Scardinatore? Perche’ da questo monaco viene abbattuta l’ignoranza, stroncata dalle radici, fatta simile a ceppo di palma, cosi’ che essa non puo’ piu’ germinare, ne’ svilupparsi. E perche’ Colmatore della Fossa? Perche’ da questo monaco il mutevole mondo delle nascite, gravido d’esistenza, viene rinnegato, stroncato dalle radici, fatto simile a ceppo di palma, cosi’ che essa non puo’ piu’ germinare ne’ svilupparsi. E perche’ Strappatore della Freccia? Dal monaco la sete di vivere viene rinnegata, spenta dalle radici, fatta simile a ceppo di palma, cosi’ che essa non puo’ piu’ germinare ne’ svilupparsi. E perche’ Sganciato? Dal monaco i cinque vincoli vengono rinnegati, stroncati dalle radici, fatti simili a ceppo di palma, cosi’ che essi non possono piu’ germinare ne’ svilupparsi. E perche’ Distaccato? Dal monaco la vanita’ dell’Io viene rinnegata, stroncata dalle radici, fatta simile a ceppo di palma, cosi’ che essa non possa piu’ germinare ne’ svilupparsi. Il monaco cosi’ redento d’animo, non ardiscono avvicinarlo nemmeno gli dei Indra, Brahma e Pajapati: salda e’ la coscienza di questo Compiuto. Infatti gia’ in vita io chiamo il Compiuto intangibile. Me, che cosi’ parlo, cosi’ insegno, alcuni asceti e brahmani accusano irragionevolmente, falsamente, futilmente, a torto cosi’: Un distruttore e’ l’asceta Gotamo, egli annunzia distruzione, annientamento, rinnegamento della vera vita. Essi mi accusano di cio’ che io non sono: oggi come prima, voi monaci, io annunzio soltanto una cosa: il dolore e l’estirpazione del dolore. Se quindi gli uomini biasimano, condannano, perseguono ed attaccano il Compiuto, egli non si disgusta, ne’ si sdegna, ne’ si abbatte. E se gli uomini valutano, lodano, stimano ed onorano il Compiuto, egli non si allieta, ne’ si allegra o si esalta; allora il Compiuto pensa cosi’: perche’ questo e’ stato gia’ prima pensato, percio’ mi fanno essi qui tali onori. Percio’ o monaci, anche voi dovete comportarvi alla stessa maniera. Rinunziate, voi monaci, a cio’ che non vi appartiene, e cio’ sara’ per voi largamente di vantaggio. E cos’e’ che non vi appartiene? Il corpo, la sensazione, la percezione, le distinzioni, la coscienza; tutte queste non vi appartengono: rinunciatevi; cio’ vi riuscira’ largamente di vantaggio, di salute. Che pensate, voi monaci, se un uomo portasse via, bruciasse o a suo piacimento o trattasse cio’ che in questa selva del Vincitore e’ sparso di erbe e fascine, ramoscelli e foglie, pensereste voi forse: costui ci porta via, ci brucia, ci tratta a suo piacimento? Veramente no, o Signore! E perche’ no? Non e’ certo cio’ il nostro Io o Proprio! Or cosi’ appunto, rinunziate a cio’ che non vi appartiene. Cosi’, voi monaci, ho esposto e svelato la verita’. E per coloro che hanno raggiunto lo scopo non vi e’ piu’ girare; coloro che hanno spezzato i cinque vincoli si estinguono per non tornare piu’ in questo mondo: coloro che hanno spezzato i tre vincoli, scaricati di brama, avversione ed errore, torneranno solo una volta e poi porranno fine al dolore; coloro che sono inclini alla verita’, inclini alla dottrina, questi si affrettano verso il pieno risveglio. Cosi’ parlo’ il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci sulla parola del Sublime. I primi sette paragoni sono estesamente spiegati nel discorso n. 54

III PARTE - 03 (23) IL FORMICAIO (VAMMIKASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Nello stesso tempo l’ onorevole Kumârakassapo dimorava nella Selva Scura. Quando fu sceso il crepuscolo, una certa divinità illuminò l’intera Selva Scura col suo splendore, si avvicinò all’onorevole Kumârakassapo, si sedette in disparte e gli disse: “Monaco, questo formicaio fuma di notte e fiammeggia di giorno. Il brâhmano disse: ‘Scava, Savio, con arma tagliente’. Il Savio scavò e trovò un cuneo. Il brâhmano disse: ‘Via il cuneo, continua a scavare Savio. Il Savio scavò e trovò una bolla, ma il brâhmano lo incitò a gettarla e a continuare a scavare. La cosa si ripeté quando il Savio trovò uno dopo l’ altro: un bidente, un graticcio, una testuggine, una scure, un pezzo di carne, un naja. A questo punto il brâhmano disse: ‘Ferma, non toccare il naja, rendigli onore!’.” La divinità allora disse all’onorevole monaco: “Ripeti questo enigma al Sublime, ascoltane la spiegazione e conservala. Non vedo alcuno al mondo, né dèi, né spiriti cattivi o buoni, né asceti o brâhmani, né uomini che possa chiarirlo se non il Compiuto, o un suo dotto discepolo.” Detto questo, la divinità sparì. Trascorsa la notte, l’onorevole Kumârakassapo si recò dal Sublime, lo salutò riverentemente, si sedette accanto, gli raccontò l’accaduto e gli riferì l’ elogio della divinità, gli disse l’enigma, e gli chiese: “Cos’è il formicaio, chi è il brâhmano, chi il Savio, cos’è l’arma tagliente, cosa sono tutte le altre cose?” E il Sublime: “Formicaio è il corpo formato dalle quattro materie principali, generato dai genitori, sviluppato col nutrimento, soggetto al trapasso, al disfacimento, alla consumazione, alla dissoluzione, alla distruzione. Il fumare di notte è ciò che il corpo riflette e pondera, mentre il fiammeggiare di giorno è ciò che esso opera in azioni, parole e pensieri. Il brâhmano sarei io, il Compiuto, il Santo, perfetto Svegliato. Il Savio designa il monaco che lotta; l’arma tagliente è la santa sapienza. Lo scavare indica la costante perseveranza; il cuneo l’ignoranza. La bolla indica l’ira e la disperazione. Il bidente rappresenta il dubbio e il graticcio designa i cinque impedimenti: l’impedimento del desiderio, dell’ avversione, dell’accidia, della superbia, dell’esistenza.. La testuggine indica i cinque elementi dell’attaccamento alla vita: attaccamento alle forme, alle sensazioni, alle percezioni, alle distinzioni, alla coscienza. La scure indica le cinque facoltà di bramare: delle forme penetranti tramite la vista; dei suoni penetranti tramite l’udito; degli odori penetranti tramite l’olfatto; dei sapori penetranti tramite il gusto; dei contatti penetranti tramite il tatto nella coscienza. Il pezzo di carne indica il piacere della soddisfazione. Il naja indica il monaco che ha estinta la mania. Questo è il senso: la santa sapienza è conquistata tramite la costante perseveranza. Superando l’ignoranza, l’ira e la disperazione, il dubbio, i cinque impedimenti, i cinque attaccamenti alla vita, le cinque facoltà del bramare, il piacere della soddisfazione, si giunge all’ estinzione della mania. Onore al monaco che lottando ha compiuto l’opera!” Così parlò il Sublime. Contento si rallegrò l’onorevole Kumârakassapo della

M. 24 - LE STAZIONI DI POSTA - RATHAVINITASUTTAM

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime presso Rajagaham nel parco di bambu’, al colle degli scoiattoli. In quel tempo, molti monaci che avevano passato la stagione delle piogge nella loro patria, si recarono dal Sublime il quale si volse verso di loro cosi’: Chi di voi, monaci, si e’ ben comportato in patria cosi’: di poco avendo bisogno ha discorso della mancanza di bisogno; contento, ha discorso della contentezza; ritirato, ha discorso del ritiro; distaccato dal mondo ha discorso del distacco; perseverando, ha discorso della costante perseveranza; virtuoso, ha discorso della virtu’; raccolto, ha discorso della grazia del raccoglimento; savio, ha discorso della saggezza; redento, ha discorso della redenzione; egli stesso chiaramente conoscendo la redenzione, un ammaestratore, rischiaratore, annunziatore, incoraggiatore, animatore, rasserenatore dei fedeli dell’Ordine? Un onorevole di nome Punno, o Signore, il figlio della Mantani, si e’ in patria, tra i monaci fedeli dell’Ordine, comportato cosi’. In quel frattempo l’onorevole Sariputto aveva preso posto non lontano dal Sublime; e gli venne il pensiero: Felice e’ l’onorevole Punno Mantaniputto, il cui molto merito intelligenti fratelli dell’Ordine elogiano innanzi al Maestro, ed il Maestro se ne rallegra. Oh se anche noi potessimo incontrarci con l’onorevole Putto e intrattenerci su qualcosa! Ed ora il Sublime si mise in cammino verso Savatthi, dove prese dimora nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anathapindiko. Allorche’ all’onorevole Punno Mantaniputto giunse all’orecchio che il Sublime dimorava a Savatthi, sollevo’ il suo giaciglio, prese mantello e scodella e si mise in cammino per Savatthi. Giunto che fu dal Sublime riverentemente si sedette accanto, e a questo Onorevole il Sublime diede conforto, coraggio, animo e serenita’ in isruttivo colloquio. Un monaco riferi’ all’onorevole Sariputto che Punno aveva avuto un colloquio col Sublime, si reco’ da lui, e verso sera, quando ebbe finito la meditazione, sedette accanto e parlo’ all’onorevole Punno cosi’: Viene dunque menata presso il Sublime santa vita? Certamente, fratello. E come viene presso il Sublime menata santa vita: a scopo di pura virtu’? Questo no, o fratello. Allora a scopo di puro cuore, viene presso il Sublime menata santa vita? Questo no, o fratello. Allora a scopo di pura conoscenza? Questo no, fatello. A scopo di pura sicurezza? Questo no, fratello. A scopo di pura scienza delle vie? Questo no, fratello. A scopo di pura scienza del sentiero? Questo no, fratello. A scopo di pura scienza? Questo no, fratello. A che scopo allora, o fratello, viene presso il sublime menata santa vita? A scopo di immateriale perfetta estinzione, o fratello, viene presso il Sublime menata santa vita. Come deve dunque, o fratello, essere bene inteso il senso di questo discorso? Se il Sublime, o fratello, avesse indicato pura virtu’, puro cuore, pura conoscenza, pura sicurezza, pura scienza, pura scienza del sentiero, pura scienza delle vie, come immateriale perfetta estinzione, allora il Sublime avrebbe indicato cio’ che e’ materiale come immateriale perfetta estinzione. Ma se, o fratello, immateriale perfetta estinzione fosse possibile senza queste cose, allora l’uomo comune raggiungerebbe la perfetta estinzione: giacche’ l’uomo comune, o fratello, e’ senza queste cose. Percio’ io, ora voglio proporti un paragone:se un affare urgente chiamasse a Saketam il re Pasenadi mentre egli risiede a Savatthi, sarebbero approntate per lui sette stazioni di posta per il viaggio. Dopo che lui fosse salito sulla prima posta e poi passasse alla seconda e poi alla terza e cosi’ via fino alla settima, e la’ giunto ministri e consiglieri gli chiedessero: e’ con questa posta che il gran re e’ giunto da Savatthi? Egli dovrebbe rispondere: io salii sulla pima posta, quindi sulla seconda, la terza e cosi’ via fino a questa, che e’ la settima. Or cosi’ anche, appunto, fratello, pura virtu’ mena a puro cuore, puro cuore a pura conoscenza, pura conoscenza a pura sicurezza, pura sicurezza a pura scienza delle vie, pura scienza delle vie a pura scienza del sentiero, pura scienza del sentiero a pura scienza, pura scienza ad immateriale perfetta estinzione. A scopo di immateriale perfetta estinzione, o fratello, viene presso il Sublime menata santa vita. Dopo queste parole l’onorevole Sariputto disse all’onorevole Punno Mantaniputto: E’ mirabile, o fratello, e’ straordinario, come un cosi’ esperto discepolo ha esaurientemente risposto a queste domande di profondo significato. Felici sono i fratelli dell’ordine e felici siamo pure noi che godiamo la vista e la compagnia dell’onorevole Punno Mantaniputto! Cosi’ si allietavano quei due grandi in reciproco, benfatto, colloquio.

III PARTE - 05 (25) - LA PASTURA (NIVÂPASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là il Sublime si rivolse ai monaci: “Monaci, il cacciatore non sparge pastura alla selvaggina pensando: ‘Possa la selvaggina nutrirsi di questa pastura, rimanere sana e invecchiare’; ma pensa: ‘Adescata dalla pastura che qui spargo, la selvaggina ne trarrà cieco godimento e, soddisfatta, si lascerà andare e la potrò rinchiudere a mio vantaggio in questo recinto’. Venne il primo branco di selvaggina adescata dalla pastura che il cacciatore aveva sparso, e, come aveva architettato il cacciatore, gioì ciecamente della pastura, si lasciò andare, e fu rinchiuso nel recinto. Un secondo branco si accorse dell’accaduto, si tenne lontano dalla pastura sparsa e si ritirò nel profondo della selva. Nell’ultimo mese dell’estate, quando erba e acqua inaridirono, il secondo branco di selvaggina divenne straordinariamente magro, perse le forze; spossato, ritornò alla pastura che era stata sparsa dal cacciatore, godette ciecamente del cibo, ne fu soddisfatto, si lasciò andare e fu rinchiuso nel recinto. Un terzo branco si accorse che neppure il secondo branco aveva potuto sottrarsi al potere del cacciatore e decise di trattenersi nelle vicinanze. A quel punto, il cacciatore e i suoi aiutanti si meravigliarono della magica astuzia del terzo branco che si nutriva con accortezza della pastura, senza lasciarsi accecare dal godimento, e non si capiva dove andava dopo che era venuto a nutrirsi. Decisero allora di circondare da tutti i lati il luogo della pastura con grandi pali per scoprire dove il branco si nascondeva dopo il pasto. Così facendo scoprirono i movimenti del branco, lo circondarono e lo rinchiusero nel recinto. Un quarto branco di selvaggina che aveva osservato tutto, pensò di trovare un rifugio che fosse inaccessibile al cacciatore e ai suoi aiutanti. Venendo di là avrebbe potuto nutrirsi con giudizio della pastura sparsa, poi si sarebbe di nuovo rifugiato nel luogo inaccessibile se non a lui. E così fece. Nuovamente il cacciatore e gli aiutanti circondarono di pali il luogo della pastura e spiarono dove si nascondeva il quarto branco senza tuttavia riuscire a scoprire dove esso si nascondeva. Pensarono: ‘Se ora noi spaventiamo il quarto branco, questo spaventerà fuggendo gli altri branchi che, a loro volta, spaventeranno altri branchi, in tal modo la pastura che spargiamo sarà evitata da tutta la selvaggina. Sarà meglio lasciar perdere il quarto branco!’. E così, il quarto branco di selvaggina poté sottrarsi alle astuzie del cacciatore.” “Monaci, il senso del paragone che vi ho detto è questo: la pastura indica le cinque facoltà del bramare; il cacciatore designa la malvagità personificata, Maro. Gli aiutanti sono gli agenti della natura, e il branco indica la comunità degli asceti e degli eremiti. I primi asceti ed eremiti attratti dalla pastura che la natura sparge, dall’ adescamento del mondo, si sono dati a cieco godimento, divenuti soddisfatti si sono lasciati andare e sono stati condotti in quell’adescamento del mondo, alla mercé della natura. Essi non possono sottrarsi al potere della natura. Un secondo gruppo di asceti ed eremiti, notato ciò che è accaduto ai primi, si sono tenuti lontani da ogni adescamento del mondo, lontani dal cibo nocivo, si sono ritirati nel profondo della selva. Sono vissuti nutrendosi di erbe e funghi, di riso e grano selvatico, di semi e noccioli, di latte di piante e resina d’albero, di gramigna, di sterco di vacca, si sono sostentati di radici e frutti di bosco, sono vissuti di frutti caduti. E nell’ultimo mese dell’estate, quando tutto inaridì, divennero scarni, persero le forze; spossati, persero la tranquillità dello spirito; turbati andarono a quella pastura che la natura sparge, a quell’adescamento del mondo. Adescati, datisi a cieco godimento, essi divennero soddisfatti; divenuti soddisfatti, si lasciarono andare; lasciatisi andare, furono condotti in quel recinto, in quell’adescamento del mondo, alla mercé della natura. Un terzo gruppo di asceti ed eremiti, per evitare ciò che era successo ai primi due, decise di trattenersi nelle vicinanze dell’adescamento del mondo; là rimanendo essi godettero, non adescati e non ciecamente, il nutrimento; così facendo non divennero soddisfatti, non si lasciarono andare e non furono condotti in quel recinto, in quell’adescamento del mondo, alla mercé della natura. Ma essi concepirono opinioni come; ‘Il mondo è eterno’ o ‘Il mondo è temporaneo’, ‘Il mondo è finito’ o ‘Il mondo è infinito’, ‘Anima e corpo sono una e medesima cosa’ o ‘Altro è l’anima, altro è il corpo’, ‘Il Compiuto persiste dopo la morte’ o ‘Il Compiuto non persiste dopo la morte’ o ‘Il Compiuto persiste e non persiste dopo la morte’ o ancora ‘Né persiste né non persiste dopo la morte’. E così, monaci, neppure il terzo gruppo riuscì a sottrarsi al potere della natura. Un quarto gruppo di asceti ed eremiti, consapevole di ciò che era accaduto ai primi tre gruppi, decise di trovare una sede che fosse inaccessibile alla natura e ai suoi agenti. Di là essi si avanzarono alla pastura che la natura sparge, all’adescamento del mondo e godettero, non adescati e non ciecamente, il nutrimento; non divennero soddisfatti, non si lasciarono andare e non furono condotti in quell’adescamento del mondo, alla mercé della natura. Ma come s’impedisce l’accesso alla natura e ai suoi agenti? Un monaco, ben lungi da brame, lungi da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunge il grado della prima contemplazione. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il compimento del sentire e pensare, il monaco raggiunge l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la libera dal sentire e pensare, nata dal raccoglimento beata serenità e il grado della seconda contemplazione. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: in serena pace permane il monaco equanime, savio, chiaro cosciente, e prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’ equanime savio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza anteriori, il monaco raggiunge la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza e il grado della quarta contemplazione. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: con il completo superamento delle percezioni di forma, annientamento delle percezioni riflesse, rigetto delle percezioni multiple, il monaco, nel pensiero ‘Illimitato è lo spazio’, raggiunge il regno dello spazio illimitato. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il superamento dell’illimitata sfera dello spazio, il monaco, nel pensiero ‘illimitata è la coscienza’, raggiunge il regno della coscienza illimitata. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il superamento dell’illimitata sfera della coscienza, il monaco, nel pensiero ‘Niente esiste’, raggiunge il regno della non esistenza. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il completo superamento della sfera della non esistenza, il monaco raggiunge il limite della possibile percezione. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il superamento del limite della possibile percezione, il monaco raggiunge la dissoluzione della percettibilità, e la mania del savio veggente è distrutta. Costui è un vero monaco: ha accecato la natura, ha distrutto il suo sguardo, è svanito alla sua malignità, è sfuggito alla rete del mondo.” Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della sua parola.

III PARTE - 06 (26) - IL SANTO FINE. (ARIYAPARIYESANASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. E il Sublime, pronto da tempo, prese mantello e ciotola e s’avviò alla città per l’elemosina. Molti monaci si recarono dall’onorevole Ânando e gli dissero: “È da lungo tempo che non abbiamo sentito dal Sublime un istruttivo discorso: sarebbe bene lo potessimo fare.” “Allora, onorevoli, recatevi all’eremo del brâhmano Rammako; forse potrete sentire dal Sublime un istruttivo discorso.” “Lo faremo!” replicarono i monaci. Quando il Sublime fu passato di casa in casa e fu tornato dal giro di elemosina, dopo il pasto si rivolse ad Ânando: “Vieni, andiamo al Bosco ad oriente, sulla Terrazza della madre di Migâro, e rimaniamo là fino a sera.” “Bene, Signore!” replicò l’onorevole Ânando. Andarono là e quando il Sublime ebbe finito la meditazione, disse ad Ânando: “Vieni, andiamo al Bagno antico a rinfrescare le membra.” “Bene, Signore!” replicò l’onorevole Ânando. E andarono là. Dopo che il Sublime ebbe fatto il bagno e si fu asciugato, indossò uno dei suoi tre capi della veste. Allora l’onorevole Ânando disse: “L’eremo del brâhmano Rammako, che si trova in una bella e serena campagna, non è lontano da qui. Sarebbe bene se il Sublime si volesse recare là, mosso da compassione.” Il Sublime assentì alla preghiera tacendo, e si recò all’eremo del brâhmano Rammako. In quel frattempo s’erano radunati là molti monaci in istruttivo colloquio, e il Sublime si fermò alla porta dell’eremo in attesa che il colloquio finisse. Quando ciò avvenne, il Sublime tossì e picchiò col battente, e i monaci gli aprirono la porta. Il Sublime entrò, si sedette sul sedile che gli fu offerto, e si rivolse ai monaci: “Di cosa stavate qui parlando, monaci, e perché vi siete interrotti?” “Ci siamo interrotti perché ci siamo accorti della venuta del Sublime.” “Bene, monaci, ciò vi si addice, poiché come nobili figli mossi da fiducia avete lasciato la casa per l’eremo, è bene che vi siate radunati ad istruttivo colloquio. Quando vi trovate insieme è conveniente che pratichiate un istruttivo colloquio o un santo silenzio. Monaci, vi sono due fini: il fine santo e quello che non lo è. E qual è il fine non santo? Ecco, uno che sia soggetto alla nascita, cerca ciò che è soggetto alla nascita; soggetto ad invecchiare, cerca ciò che è soggetto ad invecchiare; soggetto alla malattia, cerca ciò che è soggetto alla malattia, e lo stesso accade per colui che è soggetto alla morte, al dolore, alla sozzura. Ma cosa dite essere soggetto alla nascita? Mogli e figli lo sono, ed anche servi e serve, pecore e capre, porci e polli, elefanti e buoi, stalloni e giumente, oro e argento. Ed ecco che, essendo soggetti alla nascita, si è adescati, accecati, attirati da ciò che è soggetto alla nascita. Ma tutte queste cose sono soggette alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura. Ed essendo soggetti a tutto ciò se ne è adescati, accecati, attirati e li si cerca. Questo, monaci, è il fine non santo! Ma qual è il fine santo? Uno che sia soggetto alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cerca l’incomparabile sicurezza del senza nascita, l’estinzione: soggetto alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura, osservando la miseria di tutte quelle cose, cerca l ‘incomparabile sicurezza priva di tutto ciò, l’estinzione.”“Anche io, una volta, prima del pieno risveglio, come imperfetto Svegliato, al risveglio solo anelante, essendo io stesso soggetto alla nascita, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte, al dolore, alla sozzura, ho cercato ciò che era soggetto a tutte quelle cose. Allora mi venne il pensiero: ‘Cosa sto cercando? E se io ora, osservando la miseria di questa legge di natura, cercassi l’incomparabile sicurezza del senza nascita, del senza vecchiaia, del senza malattia, del senza morte, del senza dolore, del senza sozzura: l’estinzione? Ed io, monaci, dopo qualche tempo, ancora in fresco fiore, splendente di capelli neri, nel godimento della felice giovinezza, nella prima età virile, contro il desiderio dei miei genitori piangenti e gementi, rasi capelli e barba, vestito dell’abito fulvo, mi allontanai dalla casa per l’eremo. Così, divenuto pellegrino, cercando il vero bene, investigando per l’ incomparabile altissimo sentiero di pace, io mi recai da Âlaro Kâlâmo e gli dissi: ‘ Io vorrei, fratello, condurre vita ascetica in questa dottrina ed ordine’. La risposta fu: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, può comprenderla e, palesando la propria maestria, può raggiungerne il possesso’. Ed io lo feci, imparai tutto ciò che labbra e suoni possono trasmettere: la parola della scienza e la parola dei discepoli anziani. Ma mi venne il pensiero: ‘Âlaro Kâlâmo non insegna l’intera dottrina così come la conosce’. Allora andai da lui e dissi: ‘Fino a che punto, fratello, tu dichiari che noi abbiamo compreso questa dottrina e l’abbiamo fatta nostra?’ Allora egli espose il regno della non esistenza. M io pensai: ‘Âlaro Kâlâmo non ha fiducia, non ha costanza, non ha sapere, non ha raccoglimento, non ha sapienza, ma io sì! E se ora io mi appropriassi di questa dottrina fino a padroneggiarla?’. E in breve tempo, monaci, io avevo compreso questa dottrina, ne avevo raggiunto il possesso. Allora andai di nuovo da Âlaro Kâlâmo e gli chiesi: ‘È stata da me compresa e realizzata questa tua dottrina?’ E lui rispose: ‘Così come io annunzio la dottrina, così tu l’hai compresa e realizzata. Vieni dunque, fratello, sei divenuto pari a me e possiamo dirigere insieme questa schiera di discepoli’. Così, monaci, Âlaro Kâlâmo dichiarò me, suo discepolo, come suo pari e mi onorò con alto riconoscimento. Ma a me venne questo pensiero: ‘Questa dottrina non conduce al distacco, al rivolgimento, alla dissoluzione, all’annullamento, alla contemplazione, al pieno risveglio, all’estinzione, ma solamente all’apparizione nella sfera della non esistenza’. E io trovai questa dottrina insoddisfacente, e, inappagato da essa, mi allontanai. Alla ricerca del vero bene, investigando per l’incomparabile altissimo sentiero di pace, io mi recai da Uddako, il figlio di Râmo, e gli dissi: ‘Vorrei, fratello, praticare la vita ascetica della tua dottrina e nel tuo ordine.’ E anche lui mi rispose: ‘Resta, onorevole! Questa dottrina è tale che un uomo intelligente, anche in breve tempo, può comprenderla e, palesando la propria maestria, può raggiungerne il possesso’. E io compresi in breve tempo questa dottrina. E, com’era accaduto prima, essendomi accorto che Uddako Râmaputto, non aveva comunicato l’intera dottrina, mi recai da lui, e, insistendo, egli mi espose il limite di possibile percezione. Mettendo in atto le mie qualità, in breve tempo compresi e divenni padrone di quest’altra dottrina. Mi recai da Uddako e dimostrai la mia padronanza della sua dottrina. E, ancora una volta, egli mi dichiarò suo pari, mi rese onore e mi investì del grado di maestro della schiera dei suoi discepoli. Ma nuovamente pensai: ‘Questa dottrina non conduce al distacco, al rivolgimento, alla dissoluzione, all’annullamento, alla contemplazione, al pieno risveglio, all’estinzione, ma solamente all’ apparizione nella sfera del limite di possibile percezione’. E io trovai questa dottrina insoddisfacente, e, inappagato da essa, mi allontanai. Cercando il vero bene, investigando per l’incomparabile altissimo sentiero di pace, passai di luogo in luogo per la terra di Magadhâ e giunsi nelle vicinanze del borgo di Uruvelâ. Là vidi un ben esposto pezzo di terra, un sereno fondo boschivo, un limpido fiume scorrente, adatto al bagno, rallegrante, e tutt’intorno prati e campi. Pensai che ciò bastava per l’ ascesi di un nobile figlio, e mi sedetti esclamando: ‘Ciò basta all’ascesi!’ . E io, monaci, che soggetto alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cercavo l’incomparabile sicurezza del senza nascita, l’ estinzione, trovai proprio quello che cercavo. E ora la chiara certezza mi si schiuse:‘Per sempre sono redento, L’ultima vita è questa, E non v’è più ritorno.’ E pensai: ‘Trovato ho io ora questa verità, profonda, difficile da scoprire, difficile da percepire, tranquilla, preziosa, intima, inescogitabile, accessibile ai savi. Ma la gente cerca il piacere, ama il piacere, pregia il piacere. Alla gente una cosa come il rapporto di causa ed effetto, l’ origine da cause, sarà appena intelligibile; ed anche quest’altra cosa essa a stento intenderà: lo svanire d’ogni distinzione, il distacco da ogni attaccamento, l’esaurirsi della sete di vivere, il rivolgimento, la dissoluzione, l’estinzione. Se io quindi espongo la verità e gli altri non mi intendono, me ne verrà certo amarezza e pena’. E spontanei mi si presentarono questi versi, mai prima sentiti:‘Quel che con intimo sforzo ho trovato Or palesare è interamente vano: Agli uomini, che d’odio ardono e brama Non conviene davver tale dottrina Dottrina, che risale la corrente, Ch’è interna ed è profonda ed è nascosta: Essa resta invisibile ai bramosi, Nella più fitta tenebra raccolta.’ Così riflettendo, monaci, inclinava l’animo mio a rinserrarsi, non ad esporre la dottrina. Allora Brahmâ Sahampati (*) si avvide della mia riflessione e si dolse: ‘Si perderà il mondo, miseramente si perderà se l’ animo del Compiuto, Santo, perfetto Svegliato, inclina a rinserrarsi, a non esporre la dottrina!’ Allora Brahmâ Sahampati disparve dal mondo di Brahmâ con la stessa facilità con cui un uomo forte stende o piega il braccio, ed apparve innanzi a me. Scopertasi una spalla, congiunse le mani verso di me e disse: ‘Voglia il Sublime esporre la dottrina! Vi sono esseri di più nobile specie: senza aver udito la dottrina essi si perdono; essi comprenderanno la dottrina’. Così parlò, ed aggiunse:‘Ben false cose furono annunziate In Magadhâ; dottrine false e torbide, Da indegni escogitate e proclamate. Questa porta di vita apri ora tu, E guidaci alla nuova verità.Com’un, che in cima stia ad alto monte E sulla terra guardi tutt’intorno, Guarda or così, Tutt’Occhio, tu dal sommo Vertice del vero su questo mondo Di dolore, tu dal dolor redento! Guarda, o Savio, pietoso, all’esistenza: Formarsi e trapassare è il suo tormento.Tu, o Eroe, vincitor della battaglia, Volgiti, o duce senza macchia, al mondo! Annunziagli, o Signore, la dottrina: Intelligenti pur si troveranno’.Per sollecitazione di Brahmâ dunque, e per compassione degli esseri io guardai con lo svegliato occhio nel mondo. Così come in un lago con piante di loto, alcuni fiori celesti o bianchi o rosei, hanno origine nell’acqua e in essa si sviluppano, rimangono sotto la sua superficie e succhiano nutrimento dalla profondità; altri si spingono sino alla superficie dell’ acqua; e altri ancora emergono sull’acqua: così appunto io vidi, guardando con lo svegliato occhio nel mondo, esseri di specie nobile e di specie volgare, acuti di mente e ottusi di mente, bene dotati e male dotati, svelti a comprendere e tardi a comprendere, e molti che stimano cattiva l’ esaltazione di un altro mondo. E allora replicai a Brahmâ con questa strofa:‘Dell’immortalità s’apron le porte: Chi ha orecchi per udire venga ed oda. Repulsione intuendo io non volevo L’alta dottrina palesar, Brahmâ ‘. Allora Brahmâ disse: ‘Il Sublime ha consentito ad esporre la dottrina’, mi salutò riverentemente, girò verso destra e sparì di là. E ora mi chiesi: ‘A chi potrei esporre per primo la dottrina; chi potrà comprenderla presto?’ Allora pensai di esporla ad Âlaro Kâlâmo perché era un savio ritirato, profondo, che viveva da lungo tempo nella rinuncia; lui avrebbe presto compreso, ma mi si presentarono delle divinità che mi dissero che Âlaro Kâlâmo era morto da sette giorni. Allora pensai di esporre la dottrina a Uddako Râmaputto, anche lui un savio ritirato, profondo, che viveva da lungo tempo nella rinuncia; lui avrebbe presto compreso, ma altre divinità mi riferirono che Uddako era morto la sera avanti. Mi tornò il pensiero: ‘A chi altri potrei esporre la dottrina?’ E mi ricordai di quei cinque compagni che mi assistevano quando io mi diedi all’ ascesi; perché non esporre la dottrina a loro. Ma dove avrei potuto trovarli? Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, vidi che essi soggiornavano presso Benâres, nel Bosco della Pietra del Vate. Ed allora io, monaci, dopo essermi trattenuto alquanto in Uruvelâ, mi diressi verso Benâres. Allora mi incontrò Upako, un penitente nudo, sulla via che dall’albero del Risveglio va verso Gayâ, e mi disse: ‘Sereno, fratello, è il tuo volto, chiaro il colore della pelle e puro! Per quale motivo ti sei ritirato dal mondo? Chi è il tuo maestro? Di quale dottrina sei seguace?’ A queste parole io dissi ad Upako queste strofe:‘Vittorioso io sono, onniveggente, Per sempre distaccato da ogni cosa, Rinnegator di tutto, e senza sete, Da me maestro, chi mai nomerò? Nessun maestro inver m’ha illuminato, Esser non avvi alcuno che m’agguagli; Il mondo coi suoi dei tutti quanti Alcun non ha che a pari possa starmi.Poi che il Signore io ben sono del mondo, L’altissimo Maestro, tal son’io, Un unico di tutto Compitor, Ch’ogni manìa perfettamente ha estinto.Il vero regno appunto adesso io edifico E di Benâres vado alla città: Nel mondo oscuro lieta ha da squillare Ora la tromba d’immortalità’.‘Così tu dunque, fratello, credi di essere il Santo, l’illimitato Vincitore?‘Eguali a me son certo i Vincitori, Allor che la manìa hann’abbattuto: Tutto quel ch’è dannoso io ho già vinto, Ben sono dunque, Upako, un Vincitore’. A questi versi, il penitente nudo Upako replicò: ‘E quand’anche fosse, fratello! ‘; scosse il capo, e s’allontanò per una via laterale. E io, di luogo in luogo, giunsi là dove si trovavano i miei cinque compagni che, quando mi ebbero visto, si dissero l’un l’altro: ‘Ecco che arriva l’ asceta Gotamo, l’abbondante, quello che abbandonata l’ascesi s’è dato all’ abbondanza: non salutiamolo, non alziamoci per togliergli mantello e ciotola; indichiamogli solo un posto dove, se vuole, può sedersi’. Ma più m ‘avvicinavo, meno i cinque compagni poterono persistere nella loro risoluzione: alcuni mi vennero incontro e mi tolsero mantello e ciotola, alcuni mi pregarono di prendere posto, alcuni prepararono un lavacro per i piedi, e tutti mi salutarono chiamandomi fratello. Ma io dissi loro: ‘Ascoltatemi: l’immortalità è trovata. Io guido, io espongo la dottrina. Seguendo la mia guida, voi in breve tempo, ancora in questa vita, imparerete, realizzerete e conquisterete la più alta perfezione della santità: quello scopo per il quale nobili figli lasciano la casa per l’ eremo. Non salutatemi col nome di fratello: santo è il Compiuto, il perfetto Svegliato!’. I cinque mi risposero: ‘Perfino con la tua tanto aspra penitenza, fratello Gotamo, con la tua macerazione, con la tua ascesi dolorosa, tu non hai conquistato il sopraterreno, ricco santuario della ricchezza del sapere: com’è che ora che ti sei dato all’abbondanza, che hai abbandonato l’ascesi, tu ora dici di possedere la somma chiarezza del sapere?’. E io replicai: ‘Non è così come dite: santo è il Compiuto, il perfetto Svegliato. Ascoltate, vi ripeto ciò che vi ho detto’. Ma i cinque per la seconda e per la terza volta mi fecero la stessa obiezione. Allora chiesi loro se mi avessero mai sentito prima fare certe affermazioni. Mi risposero di no. Per la quarta volta ripetei il messaggio, e finalmente riuscii a rendere i cinque compagni partecipi di ciò che conoscevo. Prima spiegai come elemosinare: due o tre monaci andavano a elemosinare, e il cibo che avevano ricevuto in elemosina l’avremmo diviso in sei parti e avremmo vissuto di ciò. Poi spiegai la dottrina ed essi, così ammaestrati, così guidati, soggetti essi stessi alla nascita, osservando la miseria di questa legge di natura, cercando l’incomparabile sicurezza senza nascita, senza vecchiaia, senza malattia, senza morte, senza dolore, senza sozzura, trovarono l’incomparabile sicurezza dell’estinzione. La chiara certezza si schiuse ora a loro:‘Per sempre siam redenti, L’ultima vita è questa,“Monaci, vi sono cinque facoltà di bramare: le forme penetranti per la vista, i suoni penetranti per l’udito, gli odori penetranti per l’olfatto, i sapori penetranti per il gusto, i contatti penetranti per il tatto, tutti amati, desiderati, appaganti, graditi, corrispondenti alle brame, eccitanti, entrano nella coscienza. Di tutti gli asceti o brâhmani, che adescati, accecati, attirati, si servono delle cinque facoltà di bramare, senza vederne la miseria, senza pensare a scamparvi, si può dire che sono: perduti, rovinati, caduti in balìa del danno. Se una fiera del bosco fosse presa da un laccio, allora essa sarebbe perduta, rovinata, caduta in balìa del cacciatore; se ora arrivasse il cacciatore, essa non potrebbe scappare dove vuole: così sarebbe degli asceti che si servono delle cinque facoltà del bramare senza rendersi conto dei rischi. Se invece essi se ne rendessero conto, sarebbero come una fiera del bosco che non avesse posato la zampa nel laccio del cacciatore. Così come una fiera, vagando in remoti recessi della selva, è sicura andando, fermandosi, sedendo e giacendo perché è lontana dalle trappole del cacciatore: altrettanto un monaco, lungi da brame, lungi da cose non salutari, in sentita, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunge il grado della prima contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre, dopo il compimento, la cessazione, del sentire e pensare, il monaco raggiunge l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la beata serenità nata dal raccoglimento libera dal sentire e pensare, il grado della seconda contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, in serena pace permane il monaco, equanime, savio, chiaro cosciente, e prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’ equanime savio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza anteriori, il monaco raggiunge la non triste, non lieta, equanime savia, perfetta purezza, il grado della quarta contemplazione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, con il completo superamento delle percezioni di forma, annientamento di quelle riflesse, rigetto di quelle multiple, il monaco, nel pensiero ‘Illimitato è lo spazio’ raggiunge il regno dello spazio illimitato. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora: dopo il superamento dell’illimitata sfera dello spazio, il monaco, nel pensiero ‘Illimitata è la coscienza’ raggiunge il regno della coscienza illimitata. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, dopo il completo superamento dell’illimitata sfera della coscienza, il monaco, nel pensiero ‘Niente esiste’ raggiunge il regno della non esistenza. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, dopo il completo superamento della sfera della non esistenza, il monaco raggiunge il limite di possibile percezione. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità. E inoltre ancora, dopo il superamento del limite di possibile percezione, il monaco raggiunge la dissoluzione della percettibilità, e la manìa del savio veggente è distrutta. Questo è un vero monaco: egli ha accecato la natura, distruttone lo sguardo, è sfuggito alla sua malignità, sfuggito alla rete del mondo. Sicuro egli va, sicuro sta, sicuro siede, sicuro giace, e ciò perché egli si tiene fuori dal dominio del danno.Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della sua parola.(*) Nota del De Lorenzo Sahampati = l’Io signore, è il nome proprio di questo Brahmâ. L’esitazione di Gotamo, il dolore e l’incitamento di Brahmâ Sahampati, nonché gli annessi, meravigliosi avvenimenti, sono stati giustamente riconosciuti come apocrifi da Robert L’Orange: essi appartengono difatti alla leggenda del Mahâvaggo-Mahâvastu e sono posteriori al resto del sutta.

III PARTE - 07 (27) L’ORMA DELL’ELEFANTE (1) (CÛLAHATTHIPADOMASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. In quello stesso periodo il brâhmano Jânussoni uscì di pomeriggio dalla città in un carro con la tenda bianca, vide arrivare da lontano il pellegrino Pilotikâ e gli chiese: “Caro Vacchâyano (?) da dove vieni?” “Dall’asceta Gotamo” “Cosa ne pensi di lui? Ha uno spirito forte ed è veramente saggio?” “Chi sono io per dirlo? Dovrebbe essere uguale a lui quello che potrebbe riuscire a conoscerne la grande forza di spirito!” “È una poderosa lode quella che gli fai, Vacchâyano!” “Chi sono io per poterlo lodare? Solo una persona eccezionale potrebbe lodare l’asceta Gotamo, il più grande degli uomini e degli dèi.” “Quali doti hai percepito in lui per essergli così devoto?” “È come se un cacciatore di elefanti, perlustrando un luogo da essi frequentato, trovasse un orma di elefante talmente grande da pensare: ‘Che possente elefante dev’essere questo!’. Altrettanto ho concluso io quando ho visto quattro orme dell’asceta Gotamo: ‘Perfettamente Svegliato è il Sublime, ben annunciata da lui è la dottrina, ben guidati i suoi discepoli!’ . Quali quattro? Ho visto parecchi nobili dotti, raffinati ed esperti dialettici, capaci di spaccare un capello in quattro, che col loro acume erano in grado di sviscerare, per così dire, interi sistemi. Essendo giunto alle loro orecchie che l’asceta Gotamo sarebbe passato in un villaggio o in una città, essi avevano elaborato una domanda da porgli. Se egli avesse risposto in un modo, essi l’avrebbero controbattuto in un altro; se avesse risposto in un altro, ugualmente avrebbero replicato di conseguenza. E si recavano là dove l’asceta Gotamo si trovava. Ed egli li confortava, li rincuorava, li animava e rasserenava in un istruttivo colloquio, tanto che essi non gli facevano neppure una domanda, e non solo non lo contraddicevano, ma diventavano addirittura suoi seguaci. Vedendo questa prima orma ho concluso: ‘Perfettamente Svegliato è il Sublime, ben annunciata da lui è la dottrina, ben guidati i suoi discepoli!’ E inoltre ho visto parecchi brâhmani dotti, raffinati ed esperti dialettici, capaci di spaccare un capello in quattro, che col loro acume erano in grado di sviscerare, per così dire, interi sistemi. Anche essi volevano proporre domande tranello a Gotamo, ma, com’era accaduto ai nobili, anche loro divennero suoi seguaci. E questa fu la seconda orma che vidi. E inoltre ancora ho visto parecchi borghesi dotti, raffinati ed esperti dialettici, capaci di spaccare un capello in quattro, che col loro acume erano in grado di sviscerare, per così dire, interi sistemi. E, com’era accaduto ai nobili e poi ai brâhmani, rinunciarono anche loro a fare domande tranello e divennero seguaci dell’asceta Gotamo. E questa fu la terza orma che vidi. E ancora una volta ho visto parecchi asceti dotti, raffinati ed esperti dialettici, capaci di spaccare un capello in quattro, che col loro acume erano in grado di sviscerare, per così dire, interi sistemi. E anche loro supplicarono l’asceta Gotamo di accoglierli nell’Ordine. E Gotamo li accolse. Accolti essi vivevano isolati, appartati, con seri intendimenti, solerti, instancabili. Ed in breve tempo essi, ancora in questa vita, avevano a sé fatta palese, realizzata e conquistata la più alta perfezione della santità: quel fine per il quale nobili figli abbandonano la casa per l ‘eremo. Ed essi dicevano: ‘Noi dovevamo aver perduto quell’intelletto, che ora abbiamo ritrovato! Noi che pensavamo di essere degli asceti, eravamo tutt’altro; noi credevamo d’essere santi e non lo eravamo; noi che pensavamo di essere vincitori, eravamo tutto meno che vincitori: ora siamo asceti, siamo santi, siamo vincitori. Quando io ebbi visto questa quarta orma dell’asceta Gotamo, allora ho concluso: ‘Perfettamente Svegliato è il Sublime, ben annunciata da lui è la dottrina, ben guidati i suoi discepoli!” A queste parole il brâhmano Jânussoni discese dal carro con la tenda bianca, denudò una spalla, s’inchinò riverentemente nella direzione in cui il Sublime dimorava, e per tre volte fece risuonare questo saluto: “Venerazione al Sublime al santo svegliato Signore!“Oh, se avessi io pure una volta l’occasione di incontrarmi con il signore Gotamo e potessi avere con lui un colloquio!” Ed egli si recò là dove il Sublime dimorava, salutò con cortesia, scambiò con lui amichevoli e importanti parole, e si sedette accanto raccontandogli del suo incontro col pellegrino Pilotikâ e del colloquio avuto. E il Sublime disse: “Il paragone con l’orma dell’elefante è rimasto incompleto, ma ora te lo completerò; fai attenzione al mio dire. Se un cacciatore d’ elefanti perlustra un luogo che essi frequentano e trova la possente ed enorme impronta di un elefante, esperto com’è egli non conclude subito: ‘Che possente elefante dev’essere questo!’. Perché no? Perché nella selva vi sono femmine d’elefanti, dette nane, con grossi piedi, e quella potrebbe essere una loro orma. Egli segue quell’orma e trova nella selva un’altra possente orma di elefante molto larga di una zampa che ha calpestato e schiacciato delle canne. Ma, se è esperto, neppure adesso conclude di trovarsi in vicinanza di un possente elefante. Perché sa che nella selva vi sono femmine di elefanti dette ‘schiacciatrici di canneti’, con grosse zampe, e potrebbe essere una loro orma. Segue quell’orma e trova un’altra grossa orma con canne schiacciate e, sopra quelle, canne intaccate dalle zanne. Ma ancora una volta egli non conclude che quella è l’orma d’un possente elefante. Potrebbe essere l’impronta di una delle elefantesse dette ‘dilaniatrici di canneti’, dalle grosse zampe. Il cacciatore continua a seguire le tracce e trova una grossa orma con canne schiacciate, con canne al piede d’un albero o in una radura, mentre va, o sta, o si riposa o giace. Allora egli può concludere: ‘Questo è il possente elefante!’ Allo stesso modo, brâhmano, ecco che appare il Compiuto nel mondo, il Santo, il perfetto Svegliato, Esperto di sapienza e di vita, il Benvenuto, il Conoscitore del mondo, l’incomparabile Guida dell’umano gregge, il Maestro degli dèi e degli uomini, lo Svegliato, il Sublime. Egli mostra questo mondo con tutti i suoi cattivi e buoni spiriti, le sue schiere di asceti e brâhmani, dèi e uomini, dopo che egli stesso lo ha compreso e penetrato. Egli annuncia la dottrina il cui principio beatifica, il cui mezzo beatifica, la cui fine beatifica; la dottrina fedele di senso e di parola; egli espone l’ascesi perfettamente purificata, perfettamente rischiarata. Questa dottrina viene sentita da un padre di famiglia, o dal suo figlio, o da uno rinato altrove. Sentita la dottrina, egli concepisce fiducia nel Compiuto. Pieno di questa fiducia egli pensa e riflette così: ‘Un carcere è la casa, un letamaio; libero cielo è il pellegrinare. Non si può, restando in casa, adempiere punto per punto l’ascetismo completamente purificato. E se io, ora, rasi capelli e barba, vestito dell’abito fulvo, andassi via da casa all’eremo?’ Dopo qualche tempo egli abbandona una piccola o una grande proprietà, abbandona una piccola o una grande cerchia di parenti, si rade capelli e barba, indossa gli abiti fulvi e allontanatosi da casa va verso l’eremo. Ora egli è divenuto un pellegrino e s’è assunto gli obblighi dell’ordine dei monaci. Ha smesso d’uccidere, si tiene lontano dall’uccidere. Senza mazza, senza spada, sensibile, pieno di simpatia, egli nutre per tutti gli esseri viventi amore e compassione. Ha smesso di prendere ciò che non gli è dato, se ne guarda bene. Aspetta ciò che gli è dato, senza intenzione furtiva, con cuore divenuto puro. Ha smesso la lussuria, vive casto, fedele alla rinuncia, estraneo alla volgare legge dell’accoppiarsi. Ha smesso il mentire, si tiene lontano dalla menzogna. Dice la verità, è devoto alla verità, retto, degno di fede, non è un ipocrita adulatore del mondo. Ha smesso la maldicenza, se ne guarda bene. Ciò che ha sentito qui egli non lo racconta là, per disunire quelli; e ciò che ha sentito là non lo racconta qui, per disunire questi. Così egli unisce i disuniti, rafforza gli uniti; la concordia lo allieta, lo rallegra, lo fa felice; egli dice parole che promuovono concordia. Ha smesso le parole aspre, se ne tiene lontano. Parole che sono senza offesa, benefiche all’orecchio, amorose, che vanno al cuore, urbane, che molti rallegrano, molti sollevano: tali sono le parole che dice. Ha smesso le chiacchiere, se ne guarda bene. Parla a tempo debito, conforme ai fatti, attento al senso, fedele alla dottrina e all’ Ordine: il suo discorso è ricco di contenuto, all’occasione ornato di paragoni, chiaro e determinato, adeguato al suo oggetto. Si astiene dal cogliere frutti e piante. Una volta al giorno egli prende cibo; di notte resta digiuno; non gli avviene di mangiare fuori tempo. Si astiene da balli, canti, giochi, rappresentazioni. Rifiuta corone, profumi, unguenti, ornamenti, acconciature, addobbi. Evita gli alti, ampi e comodi giacigli. Non accetta oro e argento. Non accetta cereali crudi. Non accetta carne cruda. Non prende donne e fanciulle. Non prende servi e serve. Non prende capre e pecore. Non prende polli e porci; elefanti, buoi e cavalli. Non accetta terreni. Non assume messaggi, invii, incarichi. Si astiene da compravendita. Si tiene lontano da falso peso e misura. Si tiene lontano dalle oblique vie della seduzione, simulazione, bassezza. Si tiene lontano da zuffe, baruffe, risse; da furti, prede e violenze. È contento dell’abito che lo copre, del cibo mendicato che sostenta la sua vita. Dovunque vada, egli va munito solo dell’abito e della ciotola con cui elemosina (il cibo). Come un uccello, dovunque esso voli, lo fa solo col peso delle sue penne, così appunto un monaco è contento dell’abito e del cibo mendicato. Nell’osservare questi santi precetti di virtù egli prova un’intima, immacolata gioia. Se scorge con la vista una forma, non concepisce alcun interesse. Siccome brama ed avversione, dannosi e nocivi pensieri, ben presto sopraffanno colui che permane con vista non vigilata, egli si dedica a questa vigilanza, egli controlla la vista, vigila attentamente sulla vista. Se ora egli ode con l’ udito un suono, se odora con l’olfatto un odore, se gusta con la lingua un sapore, se tocca con il tatto un contatto, se riconosce col pensiero una cosa, egli non concepisce alcuna inclinazione, alcun interesse. Siccome brama e avversione, dannosi e nocivi pensieri, ben presto sopraffanno colui che permane col pensiero non vigilato, egli si dedica a questa vigilanza, egli osserva il pensiero, vigila attentamente sul pensiero. Mettendo in atto questo controllo dei sensi egli prova un’intima, inalterata gioia. Chiaramente consapevole egli va e viene, guarda o distoglie lo sguardo, si alza e si muove, porta l’abito e la ciotola dell’elemosina, mangia e beve, mastica e gusta, libera vescica e intestino, va, sta, siede, s’addormenta, si sveglia, parla o tace. Fedele a questi santi precetti di virtù, a questo controllo dei sensi, fedele a questo santo e chiaro sapere egli cerca un luogo appartato, un bosco, il piede d’un albero, una grotta, una caverna di montagna, un cimitero, la profondità di una selva, un giaciglio di strame nell’aperta pianura. Tornato dall’aver elemosinato il cibo, dopo il pasto, egli siede con le gambe incrociate, il busto diritto, sollevato, e medita. Ha smesso brama mondana; ha smesso l’avversione ed è pieno d’amore e compassione per tutti gli esseri viventi; ha smesso l’accidiosa pigrizia, è amante della luce, saggio, chiaramente cosciente; ha smesso l’orgogliosa superbia, è intimamente pacato nell’animo; ha smesso di tentennare, s’è liberato dall’ incertezza, non dubita di ciò che è salutare. Egli ha così tolto questi cinque impedimenti, ha imparato a conoscere le paralizzanti scorie dell’animo e, lungi da brame e da cose non salutari, egli raggiunge in consapevole, pensante, beata serenità il grado della prima contemplazione. Ma non è questa che viene chiamata l’orma del Compiuto. Dopo il compimento del sentire e pensare, il monaco raggiunge l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la beata serenità nata dal raccoglimento e libera dal sentire e dal pensare, il grado della seconda contemplazione. Ma neppure questa è l’orma del Compiuto. In serena pace permane il monaco equanime, saggio, chiaramente cosciente, e prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime saggio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Ma neppure questa è l’orma del Compiuto. Dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’annientamento della letizia e della tristezza antecedenti, il monaco raggiunge la non triste né lieta, equanime, saggia, perfetta purezza, il grado della quarta contemplazione. Ma neppure questa è l’orma del Compiuto. Con tale animo, saldo, purificato, terso, schietto, libero da scorie, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, egli dirige l’animo alla memore conoscenza di anteriori forme di esistenza. Egli si ricorda di molte e diverse anteriori forme di esistenza: una vita, due vite, . centomila vite; poi delle epoche durante parecchie formazioni e trasformazioni di mondi. ‘Là ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, quello il mio lavoro, tale bene e tale male provai, così terminò la mia vita; di là trapassato entrai in una nuova esistenza con tutt ‘altre caratteristiche.’ Così egli ricorda molte diverse anteriori forme di esistenza, ognuna con le proprie caratteristiche, ognuna con le particolari relazioni. Con tale animo egli dirige l’animo alla conoscenza dell’apparire e sparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno vede gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici ed infelici; egli riconosce come gli esseri riappaiano sempre secondo le azioni. Ma neppure questa è l’orma del Compiuto. Con tale animo egli dirige l’animo alla conoscenza dell’estinguersi della mania. ‘Questo è il dolore’ comprende secondo verità. ‘Questa è l’origine del dolore’ comprende secondo verità. ‘Questo è l’annientamento del dolore’ comprende secondo verità. Questa è la via che conduce all’annientamento del dolore’ comprende secondo verità. ‘Questa è la mania; questa è la sua origine; questo è l’annientamento della mania; questa è la via che conduce all’annientamento della mania’ comprende conforme a verità. Ma ancora una volta non è questa l’orma del Compiuto. Ma la conclusione è vicina perché così conoscendo, così vedendo, il suo animo viene redento dalla mania del desiderio, redento dalla mania dell’ esistenza, redento dalla mania dell’errore. Sorge in lui questo sapere: ‘Nel redento è la redenzione’. Egli allora comprende: ‘Esausta è la vita, compiuta è la santità, operata è l’opera, non esiste più questo mondo’. Questa, brâhmano, viene chiamata l’orma del Compiuto. E il santo uditore può ora concludere: ‘Perfettamente Svegliato è il Sublime, bene annunciata da lui è la dottrina, ben affidati a lui sono i discepoli’. A questo punto il paragone con l’orma dell’elefante è divenuto completo,” Dopo queste parole il brâhmano Jânussoni disse al Sublime: “Benissimo, Gotamo, benissimo! Così come se uno raddrizzasse ciò che è rovesciato, o scoprisse ciò che è coperto, o mostrasse la via agli smarriti, o portasse un lume nella notte: ‘Chi ha occhi vedrà le cose’: così anche in verità venne dal signore Gotamo in varia guisa esposta la dottrina. Anche io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la dottrina e presso la comunità dei discepoli. Come seguace voglia il signore Gotamo considerarmi, da oggi per tutta la vita fedele.”

III PARTE - 08 (28) - L’ORMA DELL’ELEFANTE (2) MAHÂHATTHIPADOMASUTTAM

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Là l’onorevole Sâriputto si rivolse ai monaci: “Così come tutto ciò che è vivente, che si muove fornito di piedi, sta all’interno dell’orma dell’elefante, perché la sua orma è nota per essere la più larga di tutte, così pure tutto il bene sta nelle quattro sante verità: nelle sante verità del dolore, dell’origine del dolore, dell’annientamento del dolore e della via che conduce all’ annientamento del dolore. Ma cos’è la santa verità del dolore? Sono dolore: nascita, vecchiaia, morte, guai, calamità, sofferenze e pene, strazio e disperazione; non ottenere ciò che si desidera; in breve: i cinque tronchi dell’attaccamento sono dolore. I tronchi dell’attaccamento alla forma, alla sensazione, alla percezione, alla distinzione e alla coscienza. Ma qual è il tronco dell’ attaccamento alla forma? Le quattro materie principali e ciò che tramite esse esiste come forma: la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria. La terra può essere interna o esterna. Quella interna è ciò che in noi si presenta solido e duro, come: capelli, peli, unghie, denti, pelle, carne, tendini, ossa, midolla, reni, cuore, fegato, diaframma, milza, polmoni, stomaco, intestini, mucose, sterco e così via. Ma interna o esterna è sempre terra e ognuno deve considerarla, conforme a verità e con perfetta sapienza, come cosa che non gli appartiene, non è il suo io, non è se stesso. Riconosciuto ciò, la terra non interessa più, ci si stacca da essa. Vi sono tempi in cui le acque esteriori s’innalzano, e la terra esteriore scompare sotto di quelle. Questa terra esterna, che è così enorme, mostra d ‘essere impermanente, soggetta alle leggi della distruzione, della dissoluzione, della mutazione: e questo corpo, alto meno d’otto palmi, prodotto dalla sete d’esistenza varrebbe la pena di considerarlo un ‘Io’ o un ‘Mio’ o un ‘Essere’? Se la gente biasima, condanna, perseguita, assale un monaco, egli pensa: ‘In me s’è originata questa sensazione di dolore provocata da contatto uditivo, ed essa è determinata da contatto’. Ed egli osserva: ‘Tutto è mutevole: il contatto, la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza’. Il suo animo, che scompone così gli elementi, si solleva, si rasserena, diviene saldo e costante. Se la gente tratta un tal monaco scortesemente, senz’amore, lo batte rozzamente con pugni, gli tira pietre, lo percuote con mazze, lo colpisce con spade, allora egli pensa: ‘Così è fatto questo corpo; lo si può battere coi pugni, colpire con pietre, percuotere con mazze, ferire con spade! Ma la parola del Sublime nel Paragone della Sega suona: (Se anche, monaci, briganti ed assassini, con una sega da alberi, vi staccassero articolazioni e membra, chi per ciò si infuriasse non osserverebbe il mio insegnamento). Ferrea quindi sarà la mia forza, inflessibile; presente il sapere, irremovibile; calmo il corpo, impassibile; raccolto l’animo, unificato. Qualunque cosa facciano, sarà osservato quell’insegnamento degli Svegliati’. Se a questo monaco che si ricorda così dello Svegliato, così della Dottrina, così dei Discepoli, manca la nobile costanza dell’imperturbabilità, allora egli diviene confuso, cade in agitazione; così come accade alla nuora, incontrando il suocero. Se invece a questo monaco che si ricorda così dello Svegliato, così della Dottrina, così dei Discepoli, permane la nobile costanza dell’ imperturbabilità, allora egli è felice, ed ha realizzato molto. L’acqua può essere interna o esterna. Ciò che specificamente nell’interno si presenta fluido e liquido, come: bile, muco, pus, sangue, sudore, linfa, lacrime, siero, saliva, liquido articolare, urina o altre cose del genere, ciò si chiama acqua interna. E l’acqua interna e quella esterna sono entrambe la materia acqua. E riconosciuto conforme alla verità, con perfetta sapienza, che ciò non mi appartiene, ciò non è io, ciò non è me stesso; si diviene disinteressati all’acqua, ci si distacca da essa. Vi sono tempi in cui le acque esterne si gonfiano, in cui esse travolgono un villaggio, una città una residenza, inondano un paese, inondano terre e regni. Vi sono tempi in cui le acque del grande mare sono profonde centinaia, migliaia di miglia. Vi sono tempi in cui l’acqua del grande mare è alta fino a un solo palmo; vi sono altri tempi in cui l’acqua del grande mare è profonda dall’altezza di sette uomini sino a quella di un solo uomo. Vi sono tempi in cui l’acqua del mare raggiunge l’altezza di mezzo uomo, in cui giunge fino all’anca, al ginocchio, al malleolo; ve ne sono altri in cui non arriva a coprire la falange d’un dito. Quest’acqua esterna, che è così enorme, si mostra impermanente, soggetta alle leggi della distruzione, della dissoluzione, della mutazione: e di questo corpo, alto meno di otto palmi, prodotto dalla sete d’esistenza, varrebbe la pena di considerarlo un ‘Io’ o un ‘Mio’ o un ‘Essere’? Se ora nel monaco che così si ricorda dello Svegliato, della Dottrina e dei Discepoli, dura la nobile costanza dell’imperturbabilità, allora egli è felice, ed ha realizzato molto. Il fuoco può essere interno o esterno. Il fuoco interno è ciò che nel corpo si presenta caldo e focoso, come quello per cui si digerisce, ci si riscalda, per cui il cibo masticato e la bevanda ingerita soggiacciono a una completa trasformazione, o qualsiasi altra cosa che nell’interno si presenta calda e focosa. E ciò che vi è di fuoco interno o esterno è la materia fuoco. E riconosciuto conforme alla verità, con perfetta sapienza, che ciò non mi appartiene, ciò non è io, ciò non è me stesso; ci disinteressa del fuoco, ci si distacca da esso. Vi sono tempi in cui i fuochi esterni infuriano e distruggono un villaggio, una città, una residenza, divorano un paese, divorano terre e regni, invadono campi e prati, selve e boschi, campagne fiorenti, e si estinguono solo quando tutto è bruciato. Vi sono tempi in cui con una penna, con una piuma bisogna ventilare il fuoco. Questo fuoco, che può essere così enorme, mostra la sua impermanenza, il suo esser soggetto alle leggi della distruzione, della dissoluzione, della mutazione: e di questo corpo, alto meno di otto palmi, prodotto dalla sete d’esistenza, varrebbe la pena di considerarlo un ‘Io’ o un ‘Mio’ o un ‘Essere’? Se ora nel monaco che così si ricorda dello Svegliato, della Dottrina e dei Discepoli, dura la nobile costanza dell’imperturbabilità, allora egli è felice, ed ha realizzato molto. L’aria può essere interna o esterna. Ciò che nell’interno si presenta volatile ed aereo, come i venti del ventre e dell’intestino, i venti della inspirazione e dell’espirazione, o qualsiasi altra cosa che si presenta volatile ed aerea è materia aria. E ciò è vi è di aria interna ed esterna è l’elemento aria. E riconosciuto conforme alla verità, con perfetta sapienza, che ciò non mi appartiene, ciò non è io, ciò non è me stesso; ci si disinteressa dell’aria, ci si distacca da essa. Vi sono tempi in cui l’aria esterna infuria e abbatte un villaggio, una città, una residenza, devasta un paese, devasta terre e regni. Vi sono tempi, come nell’ultimo mese dell’estate, in cui bisogna farsi vento con una foglia di palma, con un ventaglio; tempi in cui anche sull’acqua non si muove uno stelo. Quest’aria, che può essere così enorme, mostra la sua impermanenza, il suo esser soggetta alle leggi della distruzione, della dissoluzione, della mutazione: e di questo corpo, alto meno di otto palmi, prodotto dalla sete d’esistenza, varrebbe la pena di considerarlo un ‘Io’ o un ‘Mio’ o un ‘Essere’? Se la gente biasima, condanna, perseguita, assale un monaco, egli pensa: ‘In me s’è originata questa sensazione di dolore provocata da contatto uditivo, ed essa è determinata da contatto’. Ed egli osserva: ‘Tutto è mutevole: il contatto, la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza’. Il suo animo, che scompone così gli elementi, si solleva, si rasserena, diviene saldo e costante. Se la gente tratta un tal monaco scortesemente, senz’amore, rozzamente lo batte con pugni, gli tira pietre, lo percuote con mazze, lo colpisce con spade, allora egli pensa: ‘Così è fatto questo corpo; lo si può battere coi pugni, colpire con pietre, percuotere con mazze, ferire con spade! Ma la parola del Sublime nel Paragone della Sega suona: (Se anche, monaci, briganti ed assassini, con una sega da alberi, vi staccassero articolazioni e membra, chi per ciò si infuriasse non osserverebbe il mio insegnamento). Ferrea quindi sarà la mia forza, inflessibile; presente il sapere, irremovibile; calmo il corpo, impassibile; raccolto l’animo, unificato. Qualunque cosa facciano, sarà osservato quell’insegnamento degli Svegliati’. Se a questo monaco che si ricorda così dello Svegliato, così della Dottrina, così dei Discepoli, manca la nobile costanza dell’imperturbabilità, allora egli diviene confuso; così come accade alla nuora, incontrando il suocero. Se ora nel monaco che così si ricorda dello Svegliato, della Dottrina e dei Discepoli, dura la nobile costanza dell’imperturbabilità, allora egli è felice, ed ha realizzato molto.”“Così come per mezzo di travi e giunchi, di paglia e creta viene a costituirsi uno spazio limitato, ossia ‘la casa’; così pure per mezzo di ossa e tendini, di carne e pelle viene a costituirsi uno spazio limitato, ossia ‘la forma’. Se la vista interna non è distratta, e le forme esterne non entrano nel campo visivo, allora non si verifica il corrispondente contatto reciproco, e non si viene a formare alcuna formazione nel corrispondente campo di coscienza. Se la vista interna non è distratta, e le forme esterne potrebbero entrare nel campo visivo (ma non lo fanno), non si verifica il corrispondente contatto reciproco, e non si viene a formare alcuna formazione nel corrispondente campo di coscienza. Ma se la vista interna non è distratta, e le forme esterne entrano nel campo visivo, e ha luogo una corrispondente contatto reciproco, allora si viene così alla formazione del corrispondente campo di coscienza. Ogni forma, pertinente a ciò che così si è formato, si dispone nel tronco dell’ attaccamento alla forma; ogni sensazione si dispone nel tronco dell’ attaccamento alla sensazione e lo stesso accade a ogni percezione, a ogni distinzione, a ogni coscienza. Si comprende adesso: ‘Questa è dunque la disposizione, la riunione, la combinazione di questi cinque tronchi dell’ attaccamento!’ E la parola del Sublime suona: ‘Chi vede l’origine da cause, vede la verità: chi vede la verità, vede l’origine da cause’. Da cause sono essi perciò originati, questi cinque tronchi dell’attaccamento! La volontà, il piacere, l’affermazione (anunayo), la soddisfazione in questi cinque tronchi dell’attaccamento: questa è l’origine del dolore. Il rinnegamento (vinayo) della brama del volere, il suo annullamento in questi cinque tronchi dell’attaccamento: questo è l’annientamento del dolore. E pertanto, fratelli, un monaco ha fatto molto. Se l’udito interno non è distratto, Se l’olfatto interno non è distratto, Se il gusto interno non è distratto, Se il tatto interno non è distratto, Se il pensiero interno non è distratto, e le cose esterne non entrano nel campo del pensiero, allora non ha nemmeno luogo la corrispondente combinazione reciproca, e non si perviene ad alcuna formazione del corrispondente campo di coscienza. Se il pensiero interno non è distratto, e le cose esterne entrano nel campo del pensiero, e non ha luogo alcuna reciproca combinazione, allora neppure si perviene ad alcuna formazione del corrispondente campo di coscienza. Ma se il pensiero interno non è distratto, e le cose esterne entrano nel campo del pensiero, e ha luogo una corrispondente reciproca combinazione, allora si viene alla formazione del corrispondente campo di coscienza. Ogni forma, pertinente a ciò che si è così formato, si dispone nel tronco dell’ attaccamento alla forma, ogni sensazione si dispone nel tronco dell’ attaccamento alla sensazione e lo stesso accade a ogni percezione, a ogni distinzione, a ogni coscienza. Si comprende adesso: ‘Questa è dunque la disposizione, la riunione, la combinazione di questi cinque tronchi dell’ attaccamento!’ E la parola del Sublime suona: ‘Chi vede l’origine da cause, vede la verità: chi vede la verità, vede l’origine da cause’. Da cause sono essi perciò originati, questi cinque tronchi dell’attaccamento! La volontà, il piacere, l’affermazione, la soddisfazione in questi cinque tronchi dell’ attaccamento: questa è l’origine del dolore. Il rinnegamento della brama del volere, l’annullamento della brama del volere in questi cinque tronchi dell’attaccamento: questo è l’annientamento del dolore. E pertanto, fratelli, un monaco ha fatto molto’.”Così parlò l’onorevole Sâriputto. Contenti i monaci si rallegrarono della sua parola.

III PARTE - 09 (29) - IL PARAGONE DEL LEGNO (MAHÂSAROPAMASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Râjagaham, sull’ alpe del Picco dell’Avvoltoio, poco dopo che Devadatto s’era staccato dall’ Ordine. Là egli si rivolse ai monaci pensando a Devadatto: “Ecco un nobile figlio che ha lasciato la casa per l’eremo pensando: ‘Sono precipitato nella nascita, nella vecchiaia e nella morte; in guai, sofferenze e pene; nello strazio e nella disperazione; immerso e perduto nel tale intenzione egli ha rinunciato al mondo ed ottiene elemosina onore e gloria. Tutto ciò lo allieta ed egli cambia. Finisce col diventare altero e disprezza il suo prossimo: ‘Io sono amato e glorificato, questi altri monaci però sono ignoti e insignificanti’. Egli s’inebria, diviene negligente, leggero; e chi è leggero è toccato dal dolore. Così come se un uomo che vuole legno, cerca legno, uscisse, s’arrampicasse su un grande albero vi salisse sopra, staccasse un ramoscello con foglie e si allontanasse pensando: ‘Questo è legno’: un uomo di buona vista che lo avesse osservato penserebbe: ‘Questo caro uomo non conosce né il legno duro, né quello tenero; non conosce la corteccia, né i rami. né il fogliame. Si è arrampicato sino ai rami, ha staccato un ramoscello con foglie, e se lo è portato via convinto che fosse legno; ma ciò che di legno può ricavarne, non gli servirà a nulla’. Proprio così un uomo che ha lasciato la casa per l’eremo con la giusta motivazione, ma, pur avendo ottenuto i giusti riconoscimenti, si lascia fuorviare da essi, diventa altero, disprezza chi gli sta intorno, diviene negligente e leggero; è, monaci, un monaco che ha preso per sé le foglie dell’ascetismo e ne è appagato. Ma ecco un uomo che, spinto dalle giuste motivazioni, rinuncia al mondo e lascia la casa per l’eremo. Ottiene i giusti riconoscimenti ma questi non lo allietano, non lo cambiano. Non diviene altero, non disprezza il suo prossimo; non s’inebria, non diviene negligente né leggero e, lottando con seri intendimenti, conquista le virtù dell’Ordine. Ma queste virtù lo mutano, lo rendono altero, gli fanno disprezzare il suo prossimo: ‘Io sono virtuoso, sono giusto, però questi altri monaci non lo sono, sono cattivi’. Le virtù lo inebriano, lo rendono negligente, leggero; e chi è leggero è toccato dal dolore. Così come se un uomo che cerca legno s’arrampicasse sopra un grande albero, ne staccasse un ramo e se ne andasse pensando: ‘Questo è legno’: un uomo di buona vista che avesse osservato tutto penserebbe che costui non conosce niente delle parti dell’albero, e che quel poco legno che può ricavare dal ramo non gli servirà a nulla. Allo stesso modo un nobile figlio che con giuste motivazioni avesse lasciato la casa per l’eremo, avesse ottenuto i giusti riconoscimenti e non diventasse altero e sprezzante del suo prossimo, non s’inebrierebbe, non diverrebbe negligente né leggero e conquisterebbe le virtù dell’Ordine. Per queste virtù egli si allieta e cambia, diventa altero e sprezzante: ‘Io sono virtuoso, sono giusto, gli altri monaci non sono virtuoso, sono cattivi’. Le virtù lo inebriano, lo rendono negligente, leggero; e chi è leggero è toccato dal dolore. Costui è un monaco che si accontenta di un solo ramo dell’ascetismo. Ecco un altro nobile figlio che lascia la casa per l’eremo e vive le stesse esperienze degli altri. Conquista le virtù dell’Ordine e non si lascia inebriare da esse. Non diventa negligente né leggero, e, lottando con seri intendimenti, conquista la grazia del raccoglimento. Ma ancora una volta questa grazia del raccoglimento lo altera; diventa superbo e disprezza gli altri monaci: ‘Io sono raccolto, di animo unificato, gli altri monaci non sono raccolti, hanno l’animo distratto’. Il raccoglimento lo inebria, lo rende negligente e leggero, e il leggero è toccato dal dolore. Così come se un uomo che cerca legno si arrampicasse su un grande albero e ne prendesse solo la corteccia, convinto d’aver preso del legno; uno di buona vista che lo osserva lo giudicherebbe un incompetente: allo stesso modo si comporterebbe un nobile figlio che, divenuto monaco e raggiunto il raccoglimento, disprezzasse gli altri monaci per non esserci riusciti. Costui è un monaco che si accontenta della sola corteccia dell’ascetismo. Un altro nobile figlio che, divenuto monaco, vive tutte le esperienze che abbiamo visto, raggiunge la grazia del raccoglimento, non se ne inebria; lottando seriamente conquista la chiarezza del sapere. Se ne allieta, cambia, e pensa: ‘Io sono chiaro sciente, gli altri monaci sono ignoranti’. La chiarezza del sapere lo inebria, diviene negligente e leggero; e il leggero è toccato dal dolore. Così come se un uomo che cerca legno, arrampicatosi su un grande albero, si accontentasse di legno tenero, e fosse convinto d’avere preso autentico legno; un competente che l’avesse osservato, saprebbe che si è accontentato di legno inadatto. Altrettanto un nobile figlio, divenuto monaco e raggiunta la chiara scienza, inebriato da ciò diverrebbe negligente e leggero; e il leggero è toccato dal dolore. Costui è un monaco che è appagato dal legno tenero dell’ascetismo. Un altro nobile figlio, divenuto monaco, ha raggiunto la chiaroveggenza e, lottando seriamente, ha conquistato una imperdibile temporanea redenzione . Così come se un uomo che cerca legno, segasse proprio il tronco di legno duro d’un grande albero, lo prendesse e lo portasse via, certo d’aver preso buon legno duro: un uomo competente di buona vista che l’avesse osservato, approverebbe il suo operato. Così un nobile figlio che ha lasciato la casa per l’eremo pensando: ‘Sono precipitato nella nascita, nella vecchiaia e nella morte; in guai, sofferenze e pene; nello strazio e nella disperazione; immerso e perduto nel dolore! Oh, se potessi mettere fine a tutto questo tronco di dolore!’. Con tale intenzione egli ha rinunciato al mondo ed ottiene elemosina onore e gloria. Tutto ciò lo allieta ma non lo cambia. Non diviene altero per le virtù dell’Ordine acquisite, non diventa negligente, non leggero e, lottando con seri intendimenti, egli conquista la grazia del raccoglimento. Se ne rallegra, ma non cambia. Lottando ancora conquista la chiarezza del sapere. Se ne rallegra, ma non cambia. Lottando ancora con seri intendimenti conquista l’eterna redenzione che non è cosa che si possa perdere. E così il frutto dell’ascetismo, non è elemosina, onore e gloria, non virtù dell’Ordine, non grazia del raccoglimento, non chiarezza del sapere. Ma quella imperturbabile redenzione dell’animo, ciò è lo scopo: questo, monaci, è l’ascetismo, questo ne è il nocciolo, questo il fine.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci della sua parola

III PARTE - 10 (30) - IL PARAGONE DEL LEGNO (2) (CÛLASÂROPAMASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel giardino di Anâthapindiko. Lì si recò il brâhmano Pingalakoccho che, scambiati i convenevoli col Sublime e preso posto, così gli si rivolse: “Quegli asceti e brâhmani, Gotamo, quei capi di scuole attorniati da numerosi discepoli e seguaci, i noti, celebrati pionieri, che sono molto stimati da molti, come Pûrano Kassapo, Makkhali Gosâlo, Ajito Kesakambalî, Pakudho Kaccâyano, Sanjayo Belatthaputto, Nigantho Nathaputto, sono savi, come essi affermano, o non lo sono? O alcuni lo sono ed altri no?” “Lascia perdere, brâhmano: sia come sia, voglio mostrarti la dottrina; ascoltala e fa bene attenzione al mio discorso. Così come se un uomo che va in cerca di legno, si arrampicasse su un grande albero, ne staccasse un ramoscello con foglie, lo portasse via pensando d’ aver preso del legno; un uomo di buona vista che lo avesse osservato penserebbe: ‘Quell’uomo non s’intende proprio di legno, con quello che ha preso non ci ricaverà nulla.’ E ancora, se l’uomo ne staccasse un ramo, o la corteccia, o del sughero, l’osservatore penserebbe la stessa cosa: ‘Quell ‘uomo non s’intende di legno, con ciò che ha preso non ci farà nulla.’ Se invece egli segasse il tronco dell’albero e se lo portasse via, il solito osservatore di buona vista, riconoscerebbe che costui conosce tutto dell’ albero: legno buono, sughero, corteccia, rami e fogliame; ed ha preso del legno che servirà al suo scopo. Ugualmente, brâhmano, ecco uno che mosso da fiducia ha lasciato la casa per l’eremo: ‘Precipitato sono io nella nascita, nella vecchiaia e nella morte, nei guai, in sofferenze e pene, nello strazio e nella disperazione, sprofondato nel dolore, perduto nel dolore! Oh, se mi fosse possibile mettere fine a questo intero tronco del dolore!’. Con tale intenzione egli ha rinunciato al mondo ed ottiene elemosina, onore e gloria. Tutto ciò lo allieta ed egli cambia, s’inorgoglisce e disprezza il suo prossimo. La realizzazione di altre più alte mete non lo desidera e non lo stimola; diviene soddisfatto e fiacco. Costui mi sembra come quell’uomo che si è accontentato di un ramoscello di foglie; ciò che ha ottenuto non servirà al suo scopo. E un altro che ha abbandonato la casa per l’eremo ed ha ottenuto onore e gloria, ma non s’inorgoglisce e non disprezza il suo prossimo per ciò, non diventa soddisfatto né fiacco, desidera la realizzazione di più alte mete e conquista le virtù dell’ordine. Si allieta di esse e cambia perché se ne inorgoglisce e disprezza il prossimo: ‘Sono virtuoso, sono giusto, questi altri monaci non lo sono, sono malvagi’. Soddisfatto di ciò che ha realizzato non cerca di progredire, diventa soddisfatto e fiacco. Costui mi sembra come quell’uomo che si è accontentato di un inutile ramo dell’albero. Ed eccone un altro che, abbandonata la casa, ha conquistato onore e gloria, ha conquistato le virtù dell’ordine, se n’è allietato, ma non è cambiato, non si è inorgoglito, non disprezza il suo prossimo. Egli desidera realizzare mete più elevate e arriva a conquistare la grazia del raccoglimento. Ma ecco che si rallegra e cambia, s’inorgoglisce e disprezza il suo prossimo: ‘Io sono raccolto, sono di animo unificato, ma quest’altri monaci non lo sono, hanno l’animo distratto’. Quelle altre cose più elevate e belle della grazia del raccoglimento, non desidera più conquistarle, è soddisfatto e fiacco. Costui mi sembra come quell’uomo che si è accontentato della sola corteccia. Ed eccone un altro che, abbandonata la casa per l’eremo, conquista onore e gloria, conquista le virtù dell’ordine, conquista la grazia del raccoglimento, ma, pur rallegrandosi di ogni conquista, non cambia, non s’ inorgoglisce e non disprezza il suo prossimo. E, insoddisfatto di ciò che ha realizzato, desidera la realizzazione di quelle cose che sono più elevate e belle. Egli conquista la chiarezza del sapere, ma, ancora un volta, si rallegra e cambia inorgogliendosi e disprezzando il suo prossimo: ‘Io sono chiaro sciente, quest’altri monaci sono ignoranti’. E non desidera la realizzazione di altre cose ancora più elevate e belle, diventa soddisfatto e fiacco. Costui mi sembra come quell’uomo che si era accontentato del solo sughero. Ecco ancora un uomo che ha abbandonato la casa per l’eremo. Egli conquista onore e gloria, conquista le virtù dell’ordine, conquista la grazia del raccoglimento, conquista la chiarezza del sapere, ma, pur allietandosi di tutto, egli non s’inorgoglisce, non disprezza il suo prossimo; se ne rallegra, ma non cambia. E desidera tutto ciò che è più elevato e bello, e, non soddisfatto né fiacco, lo conquista.E quali cose sono più elevate e belle della chiarezza del sapere? Ecco che un monaco ben lungi da brame, lungi da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, raggiunge il grado della prima contemplazione. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E inoltre, dopo il compimento del sentire e pensare, il monaco con l’interna calma serena, l’unità dell’animo, la beata serenità nata dal raccoglimento e libera dal sentire e pensare, raggiunge il grado della seconda contemplazione. Ecco qualcosa di più elevato e bello! cosciente; egli prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’ equanime savio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E inoltre ancora: dopo il rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza anteriori il monaco raggiunge la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza e il grado della quarta contemplazione. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E ancora: con completo superamento delle percezioni di forma, annientamento delle percezioni riflesse, rigettamento delle percezioni multiple, il monaco, nel pensiero ‘Senza limiti è lo spazio’ guadagna il regno dello spazio illimitato. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E ancora: dopo completo superamento della illimitata sfera dello spazio, il monaco, nel pensiero ‘Senza limiti è la coscienza’ guadagna il regno della coscienza illimitata. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E ancora: dopo il superamento della illimitata sfera della coscienza illimitata, il monaco, nel pensiero ‘Nulla esiste’ guadagna il regno della non esistenza. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E ancora: dopo completo superamento della sfera della non esistenza, il monaco raggiunge il limite di possibile percezione. Ecco qualcosa di più elevato e bello! E ancora: dopo completo superamento del limite di possibile percezione, il monaco raggiunge la dissoluzione della percettibilità, e la manìa del savio veggente è distrutta. Ecco qualcosa di più elevato e bello!Queste sono le cose più elevate e belle della chiarezza del sapere. Costui mi sembra come quell’uomo che andando in cerca di legno ha segato il E così il frutto dell’ascetismo, brâhmano, non è elemosina, onore e gloria, non virtù dell’ordine, non grazia del raccoglimento, non chiarezza del sapere. Ma quella imperturbabile redenzione dell’animo, è quello lo scopo: questo è l’ascetismo, questo ne è il nocciolo, questo ne è il fine.”Dopo queste parole il brâhmano Pingalakoccho disse al Sublime: “Benissimo, Gotamo, benissimo! Così come se uno raddrizzasse ciò che è rovesciato, o scoprisse ciò che è coperto, o indicasse la strada a gente che s’è persa, o portasse luce nelle tenebre: ‘Chi ha occhi vedrà le cose’: così appunto venne dal signore Gotamo esposta la dottrina in varia guisa. Anche io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la dottrina e presso i discepoli. Come seguace voglia il signore Gotamo considerarmi, da oggi per tutta la vita fedele.”

IV PARTE - 01 (31) - NELLA SELVA GOSINGAM (1) (CÛLAGOSINGASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Nâdikâ, nell’ Eremo di pietra. In quel tempo gli onorevoli Anuruddho, Nandiyo, e Kimbilo dimoravano nella selva del bosco Gosingam, e il Sublime, quando verso sera ebbe finito il riposo di meditazione, fu lì che si recò. Allora un guardaboschi che lo vide arrivare da lontano, lo attese e gli disse: “Non andare in questa selva, asceta: tre nobili giovani che sembrano paghi di sé vi dimorano, non li turbare!” Ma l’onorevole Anuruddho sentì il suo dire e gli disse: “Non distogliere il Sublime, amico: è il nostro Maestro ed è venuto.” Ed avvertì gli altri due che il Maestro era arrivato. I tre gli andarono incontro. Uno gli tolse mantello e ciotola, uno approntò un sedile e l’altro portò l’acqua per il lavacro dei piedi. Il Sublime sedette, si lavò i piedi, e si rivolse ad Anuruddho, che si era seduto accanto a lui con gli altri due: “Come va, Anuruddho, state bene, avete alimenti a sufficienza?” “Stiamo bene, non ci mancano gli alimenti” “Ma andate d’accordo, Anuruddho, senza dissidi, divenuti miti vi guardate di buon occhio? E in che modo lo fate?” “Sì, Signore. Io che vivo con questi veri asceti, sono davvero soddisfatto. Li servo con amore nell’agire, nel parlare e nel pensare, sia manifestamente, sia intimamente. E veramente sono arrivato a rinunziare alla mia volontà e mi sono assoggettato alla volontà di questi onorevoli. I nostri corpi sono diversi, ma credo che noi abbiamo una sola volontà.” E gli onorevoli Nandiyo e Kimbilo confermarono le sue parole. “Bene, bene, Anuruddho. E vi esercitate con serio intendimento, solerti ed instancabili? E come lo fate?” “Certo, Signore. Chi torna per primo dal giro di elemosina nel villaggio, apparecchia i posti, prepara l’acqua per bere, l’acqua per lavarsi e il lavacro. Chi torna per ultimo si serve del cibo e, quando è sazio, getta ciò che rimane al suolo dove non c’è erba o in acqua corrente. Poi mette in ordine i sedili, porta via l’acqua e spazza il luogo della refezione. Chi si accorge che la ciotola per bere o la conca per lavare o il vaso per l’ immondizia è vuoto, li pulisce e li mette a posto. Se da solo non può farlo, egli ne fa cenno, e noi aiutiamo senza per tale ragione interrompere il silenzio. E ogni cinque giorni, Signore, sediamo insieme per tutta la notte in colloqui sulla dottrina. Così noi stiamo seriamente solerti e instancabili.” “Bene, bene, Anuruddho. Ma avete anche acquisito una sopraterrena santa, beata pace?” “Come no, Signore! Noi, lungi da brame e da cose non salutari, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, raggiungiamo a piacere il grado della prima contemplazione.” “Bene, bene. Avete però dopo il raggiungimento e il superamento di questa dimora, conquistato anche un’altra sopraterrena santa, beata pace?” “Come no, Signore! Noi, dopo la cessazione del sentire e pensare, raggiungiamo a piacere l’interna calma serena, l’unità dell’animo, il grado della seconda contemplazione libera dal sentire e pensare, beata serenità nata dal raccoglimento. Dopo aver raggiunto e superato quella dimora, Signore, appare quest’altra sopraterrena santa, beata pace.” “Bene, bene. Avete conquistato anche altro?” “Come no, Signore! Noi restiamo a piacere in serena pace equanimi, savi, chiaro coscienti; proviamo in corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’: così noi raggiungiamo il grado della terza contemplazione. Ecco cosa conquistiamo!” “Bene, bene. Avete però conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, dopo rigetto delle gioie e dei dolori, dopo l’ annientamento della letizia e della tristezza antecedenti, raggiungiamo a piacere la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, il grado della quarta contemplazione.” “Bene, bene. Ma avete voi, dopo di ciò, conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, con completo superamento delle percezioni di forma, annientamento delle percezioni riflesse, rigetto delle percezioni multiple, nel pensiero ‘Illimitato è lo spazio’ raggiungiamo a piacere il regno dello spazio illimitato.” “Bene, bene. Ma avete voi, dopo di ciò, conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, dopo il completo superamento dell’illimitata sfera dello spazio, nel pensiero ‘Illimitata è la coscienza’ raggiungiamo a piacere il regno della coscienza illimitata.” “Bene, bene. Ma avete voi, dopo di ciò, conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, dopo completo superamento dell’illimitata sfera della coscienza, nel pensiero ‘Niente esiste’ raggiungiamo a piacere il regno della non esistenza. “Bene, bene. Ma avete voi, dopo di ciò, conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, dopo completo superamento della sfera della non esistenza, raggiungiamo a piacere il limite della possibile percezione.” “Bene, bene. Ma avete voi, dopo di ciò, conquistato altro?” “Come no, Signore! Noi, dopo completo superamento del limite della possibile percezione, raggiungiamo a piacere la dissoluzione della percettibilità; e la mania è distrutta. Dopo ascensione e superamento di quella dimora, Signore, appare quest’altra sopraterrena santa dovizia della chiarezza del sapere, beata pace. E un’altra beata pace, più alta e più eletta di questa noi non la conosciamo.” “Bene, bene, Anuruddho. Un’altra beata pace, più alta e più eletta di questa non v’è.”Ora, quando il Sublime ebbe con istruttivo colloquio confortato, sollevato e rasserenato gli onorevoli Anuruddho, Nandiyo e Kimbilo, si alzò e andò via. I tre lo accompagnarono per un tratto, e poi tornarono indietro. Quindi l’ on. Kimbilo si rivolse all’on. Anuruddho dicendo: “Com’è dunque? Perché l’ on. ci ha rappresentati al Sublime come giunti fino all’estinzione della mania? Noi non ne abbiamo mai parlato.” “No, veramente gli onorevoli non mi hanno mai detto di essersi rallegrati per aver conseguito gradi e domini, ma io l’ho visto nel loro cuore. E gli dèi me l’hanno confermato. Ho risposto correttamente alle domande delAllora Dîgho, uno spirito straniero, si recò là dove dimorava il Sublime, lo salutò riverentemente, si pose a lato e disse: “Felice è il popolo dei Vajjî dove il Compiuto, il Santo, il perfetto Svegliato e questi tre nobili figli dimorano!” Accogliendo la voce di Dîgho echeggiarono, una dopo l’altra, ripetendo la stessa frase, le voci degli dèi della terra, dei quattro grandi re, dei trentatré dèi, degli dèi delle ombre, degli dèi beati, degli dèi della gioia illimitata, degli dèi dimoranti di là dalla gioia illimitata e degli dèi del mondo di Brahmâ. Così quegli onorevoli, in un momento, in un istante, erano stati apprezzati fino nel mondo di Brahmâ.“Così è, Dîgho, così è. Se la famiglia dalla quale quei tre nobili figli sono usciti, lasciando la casa per l’eremo, pensasse con amore ad essi, allora ciò farebbe anche ad essa del gran bene, le sarebbe salutare. Se la cerchia dei parenti, se il villaggio, se la capitale, se la terra, se anche tutti i nobili, se anche tutti i sacerdoti, se anche tutti i borghesi, se anche tutti i servi, se il mondo stesso con i suoi dèi, con i suoi cattivi e buoni spiriti, con le sue schiere di asceti e brâhmani e uomini, pensasse con amore a quei tre nobili figli, allora ciò riuscirebbe largamente di bene, di salute, a tutti. Osserva, Dîgho, come da lontano operano quei tre nobili figli, per il bene di molti, per la salute di molti, per compassione del mondo: per utile, bene e salute degli dèi e degli uomini.”Così parlò il Sublime. Contento si rallegrò Dîgho, lo spirito straniero, della sua parola.

M.32 - IV PARTE II DISCORSO - NELLA SELVA GOSINGAM (2) - MAHAGOSINGASUTTAM

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime nella selva del bosco Gosingam con molti anziani e discepoli, tra i quali gli onorevoli Sariputto, Mahamogallano, Mahakassapo, Anurundo e Anando. Quando verso sera l’onorevole Mahamogallano ebbe finito la meditazione, invito’ l’onorevole Mahakassapo ad ascoltare la dottrina presso l’onorevole Sariputto, e ad essi si unirono anche gli altri. Al loro arrivo, l’onorevole Sariputto li accolse con garbate parole di benvenuto e, rivolgendosi ad Anando gli disse: Sia benvenuto l’onorevole Anando che assiste il Sublime. Bella, fratello Anando, e’ la selva Gosingam, magnifica la chiara notte lunare, gli alberi stanno in pieno fiore, pare che celesti profumi spirino intorno. Quale monaco, fratello Anando, puo’ dare splendore alla selva Gosingam? Ecco, fratello Sariputto, un monaco e’ conoscitore, custode e tesoriere della parola del Maestro; e cio’ che in essa beatifica al principio, nel mezzo e alla fine, egli tramanda fedele di senso e di parola; ed egli conosce l’ascetismo perfettamente purificato e rischiarato, lo domina col discorso, lo custodisce, lo serba nella memoria, lo ha compreso dalle fondamenta. Egli espone la dottrina alle quattro specie di uditori nel tutto, nel singolo e nell’insieme, per la completa estirpazione del desiderio. Un tale monaco, fratello Sariputto, puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Dopo queste parole si volse l’onorevole Sariputto all’onorevole Revato: L’onorevole Anando, fratello Revato, ha risposto secondo la sua concezione. Adesso interroghiamo l’onorevole Revato: quale monaco puo’ dare splendore alla selva Gosingam? Ecco, fratello Sariputto, un monaco viene ristorato e letificato dalla meditazione, conquista intima tranquillita’ di spirito, non si oppone alla contemplazione, guadagna penetrante sguardo, e’ un amico di vuoti eremi. Un tale monaco, fratello Sariputto, puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Dopo queste parole si volse l’onorevole Sariputto all’onorevole Anuruddho: L’onorevole Revato, fratello Anuruddho, ha risposto secondo la sua concezione. Adesso interroghiamo l’onorevole Anuruddho: quale monaco puo’ dare splendore alla selva Gosingam? Ecco, fratello Sariputto, un monaco con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, guarda su mille mondi in giro. Cosi’ come un uomo di vista acuta, dai merli di un’alta torre puo’ scorgere mille casamenti in giro, cosi’ un monaco con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno, puo’guardare su mille mondi in giro. Un tale monaco puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Dopo queste parole si volse l’onorevole Sariputto all’onorevole Mahakassapo e gli rivolse la stessa domanda che aveva fatto agli altri. Cosi’ rispose l’onorevole Mahakassapo: Ecco, fratello Sariputto, un monaco e’ egli stesso eremita di bosco e loda l’eremitaggio di bosco, vive egli stesso di cibo mendicato e loda il vivere di cibo mendicato, porta egli stesso l’abito di stracci rappezzato e loda cio’, possiede egli stesso solo tre capi di vestimento e loda cio’, ha egli stesso pochi bisogni e loda la mancanza di bisogni, e’ egli stesso lieto e loda la letizia, e’ egli stesso ritirato e loda il ritiro, si stacca egli stesso dal mondo e loda il distacco dal mondo, e’ egli stesso costante e loda la costanza, e’ egli stesso virtuoso dell’ordine e loda cio’, ha egli stesso conquistato la grazia del raccoglimento e loda cio’, ha egli stesso conquistato la sapienza e loda la conquista della sapienza, ha egli stesso conquistato la chiara coscienza della redenzione e loda la redenzione chiara e cosciente. Un tale monaco, fratello Sariputto, puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Dopo queste parole, l’onorevole Sariputto rivolse la stessa domanda all’onorvole Mahamogallano. Cosi’ rispose l’onorevole Mahamogallano: Ecco, fratello Sariputto, due monaci tengono un dialogo sulla dottrina, si pongono domande, e dopo che essi hanno risposto l’uno all’altro si allontanano; ed istruttivo fu il loro colloquio e promovente. E Mahamogallano prosegui’ dicendo: Ognuno di noi, fratello Sariputto, ha risposto secondo la sua concezione: adesso voglia dirci l’onorevole Sariputto la sua. Quale monaco, dunque, fratello Sariputto, puo’ dare splendore alla selva Gosingam? Ecco, fratello Mogallano, un monaco ha il cuore in suo potere e non e’ egli in potere del cuore. Di qualsivoglia raccoglimento egli voglia gratificarsi al mattino o al mezzogiorno o alla sera, di tale raccoglimento egli si gratifichera’ al mattino, al mezzogiorno o alla sera. Cosi’ come un re o un principe da un baule pieno di abiti di diversi colori sceglierebbe proprio l’abito per il mattino o quello che vuole portare al mezzogiorno o l’abito per la sera, cosi’ un monaco ha il cuore in suo potere e non e’ egli in potere del cuore. Un tale monaco, fratello Mogallano puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Ognuno di noi, dunque fratelli, ha risposto secondo la sua concezione: venite, fratelli, andiamo al Sublime e riferiamogli la cosa; come il Sublime ci rispondera’, cosi’ vogliamo noi serbarla. Si recarono dunque gli onorevoli dal Sublime, e Gli riferirono le domande a cui erano seguite le risposte, e l’onorevole Sariputto, interrogo’ il Sublima cosi’: Chi dunque ha ben parlato, o Signore? Tutti avete ben parlato, Sariputto, secondo la serie. Ed ora sentite anche da me, quale monaco puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Ecco, Sariputto, un monaco dopo il pasto, quando e’ tornato dal giro di elemosine, si siede a gambe incrociate, il corpo diritto sollevato e cura il sapere: “ Non voglio io sorgere di qui, finche’ il mio cuore non sia senza attaccamento e libero da ogni manìa”. Un tale monaco, Sariputto, puo’ dare splendore alla selva Gosingam. Cosi’ parlo’ il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci alla parola del Sublime.

IV PARTE - 03 (33) - IL BOVARO (1) (MAHÂGOPÂLAKASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella Selva del Vincitore, nel Parco di Anâthapindiko. Là egli si rivolse ai monaci: “Undici caratteristiche rendono impossibile ad un bovaro di custodire la sua mandria, di farla prosperare. Egli ignora la natura dei corpi, non conosce l’indizio, non allontana ciò che è dannoso, non fascia le ferite, non accende il fuoco, non conosce i guadi, non conosce le sorgenti, non conosce i passi, non conosce i pascoli, munge smoderatamente e non fa speciale attenzione ai tori, ai padri della mandria, ai duci della mandria. Così pure undici caratteristiche rendono ad un monaco impossibile di giungere in quest’Ordine e dottrina alla riuscita, alla maturità e allo svolgimento. Quali? Egli ignora la natura dei corpi, non conosce l’ indizio, non allontana ciò che è dannoso, non fascia le ferite, non accende il fuoco, non conosce i guadi, non conosce le sorgenti, non conosce i passi, non conosce i pascoli, munge smoderatamente e non fa speciale attenzione ai monaci, ai superiori, agli anziani, agli incanutiti nell’ascetismo, ai padri dell’Ordine. E come accade ciò? Un monaco ignora la natura dei corpi, ovvero non considera conforme alla verità tutto ciò che è corporeo, l’intera corporeità, le quattro materie principali e ciò che per esse esiste. Un monaco non conosce l’indizio, ossia non riconosce conforme alla verità che l ‘azione è ciò che rivela lo stolto e il savio. Un monaco non allontana ciò che è dannoso, ma dà spazio al pensiero bramoso che sorge in lui, non lo respinge, non lo espelle, non lo estirpa; dà spazio a pensieri d’avversione, di rabbia. Non fascia le ferite, ossia, se ha visto una forma, concepisce inclinazione, interesse per essa. Sebbene brama e avversione, cattivi e dannosi pensieri, ben presto soverchino colui che sta con la vista non vigilata, egli non si occupa di questa vigilanza, non guarda la vista. Se egli ha udito un suono, ha odorato un odore, ha gustato un sapore, ha toccato un contatto, ha pensato una cosa, allora egli concepisce inclinazione, interesse per essi. Sebbene brama e avversione, cattivi e dannosi pensieri, ben presto soverchino colui che sta col pensiero non vigilato, egli non si occupa di questa vigilanza. E come non accende il fuoco? Egli non mostra agli altri la dottrina come egli l’ha sentita ed imparata. E come non conosce i guadi? Egli non ricerca di tempo in tempo quei monaci che hanno sentito e sanno, i custodi della dottrina, dell’ Ordine, della regola; non li interroga, non s’informa: ‘Com’è ciò, signore, quale ne è il senso?’ E così quegli onorevoli non gli schiudono il chiuso, non gli rischiarano l’oscuro, non gli sciolgono il dubbio. E come non conosce le sorgenti? Egli nell’esposizione della dottrina del Compiuto non giunge all’intelligenza del senso, non all’intelligenza della dottrina, non al godimento della dottrina. E come non conosce i passi? Egli non conosce conforme alla verità il santo ottuplice sentiero. E come non conosce i pascoli? Egli non conosce conforme a verità i quattro pilastri del sapere. E come munge smoderatamente? Ecco che fiduciosi padri di famiglia invitano un monaco a scegliersi abito, cibo, giaciglio e, in caso di malattia, medicine; e il monaco non conosce moderazione nell’accettare. E come egli non fa speciale attenzione a quei monaci, ai superiori ecc.? Egli non serve i monaci, i superiori, gli anziani, i padri dell’Ordine, né con amorevole azione, né con amorevoli parole e intenzioni sia palesi che intime. Queste undici caratteristiche rendono a un monaco impossibile di giungere in quest’Ordine e dottrina alla riuscita, alla maturità e allo svolgimento. Undici qualità rendono ad un bovaro possibile custodire la sua mandria. Quali? Un bovaro conosce la natura dei corpi, conosce l’indizio, allontana ciò che è dannoso, fascia le ferite, accende il fuoco, conosce i guadi, conosce le sorgenti, conosce i passi, conosce i pascoli, lascia ancora latte nelle mammelle e fa speciale attenzione ai tori, ai padri della mandria, ai duci della mandria. Allo stesso modo undici qualità rendono ad un monaco in quest’Ordine e dottrina di giungere alla riuscita, alla maturità ed allo svolgimento. Ecco che un monaco conosce la natura dei corpi, ossia considera conforme alla verità come corporeo tutto ciò che è corporeo, l’intera corporeità, le quattro materie principali e ciò che tramite esse esiste. E come conosce l’ indizio? Egli riconosce che è l’azione che indica lo stolto ed il savio. E come allontana ciò che è dannoso? Egli non dà spazio al pensiero bramoso che sorge in lui, lo respinge, lo espelle, lo estirpa; lo stesso fa per pensieri di avversione, di rabbia ed altri cattivi, dannosi pensieri che in lui sorgano. E come fascia le ferite? Se egli ha visto una forma, allora egli non concepisce inclinazione, interesse. Siccome brama e scontento, cattivi e dannosi pensieri ben presto soverchiano colui che sta con la vista non vigilata, egli si occupa di questa vigilanza, osserva la vista, la vigila. Se ha udito un suono, odorato un odore, gustato un sapore, toccato un contatto o pensato una cosa, allora egli non concepisce inclinazione, interesse. Siccome brama e scontento, cattivi e dannosi pensieri ben presto soverchiano colui che sta col pensiero non vigilato, egli si occupa di questa vigilanza, guarda il pensiero, vigila attentamente su di esso. E come accende il fuoco? Egli mostra agli altri la dottrina, come egli l’ha sentita ed imparata. E come conosce i guadi? Egli ricerca di tempo in tempo quei monaci che molto hanno sentito e sanno, i custodi della dottrina, dell’Ordine, della regola, li interroga e s’informa: ‘Com’è ciò, signore, quale ne è il senso?’. E così quegli onorevoli gli schiudono il chiuso, gli rischiarano l’oscuro, gli sciolgono il dubbio su cose che in varia guisa suscitano dubbi. E come conosce le sorgenti? Egli, nell’esposizione della dottrina del Compiuto giunge all’intelligenza del senso, all’intelligenza della dottrina, al godimento di essa. E come conosce i passi? Egli riconosce conforme a verità il santo ottuplice sentiero. E come conosce i pascoli? Egli conosce conforme a verità i quattro pilastri del sapere. E come lascia ancora latte nelle mammelle? Ecco che fiduciosi padri di famiglia invitano un monaco a scegliersi un abito, cibo, giaciglio e, in caso di malattia, medicine, ed il monaco conosce moderazione nell’accettare. E come un monaco fa speciale attenzione a quei monaci, ai superiori, agli anziani, agli incanutiti nell’ascetismo, ai padri dell’Ordine? Egli serve quei monaci, i superiori, gli anziani e tutti con amorevole azione, parola e intenzione, sia palese che intima. Queste undici qualità rendono ad un monaco possibile in quest’Ordine e dottrina di giungere alla riuscita, alla maturità ed allo svolgimento.” Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono quei monaci per la sua parola.

 IV PARTE - 04 (34) IL BOVARO (2) (CÛLAGOPÂLAKASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava nella terra dei Vajjî, presso Ukkacelâ, sulla riva del Gange. Là egli si rivolse ai monaci: “Vi era una volta in Magadhâ, un bovaro di torbida intelligenza, che, nell’ ultimo mese della stagione delle piogge, nell’autunno, senza aver esaminato le due rive, spinse la sua mandria nel fiume, verso la riva Suvidehâ. E quando i buoi furono giunti in mezzo al Gange, la corrente li travolse ed annegarono miseramente. Così avviene di quegli asceti o brâhmani che non comprendono il mondo di qua e il mondo di là, non comprendono il regno della morte e quello del senza morte, non comprendono la temporaneità né l’eternità: chi vuole affidarsi all’arte del nuoto di costoro, a lui ciò riuscirà largamente di danno e dolore. Vi era una volta in Magadhâ, un bovaro di lucida intelligenza, che nell’ ultimo mese della stagione delle piogge, nell’autunno, dopo accurato esame delle due rive, spinse la sua mandria in un giusto guado, verso la riva Suvidehâ. Prima egli spinse dentro i tori, i padri della mandria; questi attraversarono la corrente del Gange e giunsero salvi all’altra riva. Quindi egli spinse dentro le vacche ed i buoi forti, poi i giovenchi e le giovenche, e poi i deboli vitelli, e tutti giunsero salvi all’altra riva. Infine vi era ancora là un tenero vitellino appena nato, tolto tra i muggiti alla madre, ed anche questo attraversò la corrente del Gange e giunse in salvo all’altra riva. Così avviene di quegli asceti o brâhmani che comprendono il mondo di qua e il mondo di là, comprendono il regno della morte e quello del senza morte, comprendono la temporaneità e l’eternità: chi vuole affidarsi all’arte del nuoto di costoro, a lui ciò riuscirà largamente di bene, di salute. Ora, così come quei tori attraversarono la corrente e giunsero salvi all’ altra riva: così anche quei monaci che sono santi, uomini estinti, giunti alla meta, che hanno operato l’opera, si sono scaricati del peso, hanno raggiunto lo scopo, distrutto i vincoli dell’esistenza, si sono redenti in perfetta sapienza, questi hanno attraversato la corrente della natura e sono giunti salvi all’altra riva. Come quelle vacche e buoi forti, così anche quei monaci che con l’ annientamento dei cinque vincoli ascendono in alto per poi di là estinguersi, non più tornare in questo mondo, anche essi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Come quei giovenchi e quelle giovenche, così pure quei monaci che hanno spezzato i tre vincoli, che si sono scaricati di brama, avversione ed errore, già quasi purificati, che ritornano una sola volta e poi mettono fine al dolore, anche essi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Come quei deboli vitelli, così pure quei monaci che, dopo l’annientamento dei tre vincoli, sono divenuti uditori del messaggio, sono sfuggiti al danno e, consci dello scopo, si affrettano verso il pieno risveglio, anche quelli attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Come quel tenero vitellino appena nato, così pure quei monaci che sono inclini alla verità, anche questi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Io però, monaci, comprendo il mondo di qua e comprendo il mondo di là, comprendo il regno della morte e comprendo il regno senza morte, comprendo la temporaneità e comprendo l’eternità. E quelli che vogliono affidarsi alla mia arte del nuoto, ad essi ciò riuscirà largamente di bene, di salute.” Questo disse il Sublime. Il Benvenuto, il Maestro aggiunse ancora questi versi: Il mondo di qua e di là Chiaramente il Savio svelò: Mostrò di natura le leggi, E d’ogni dolore la fine.Ei vide con occhio svegliato Il giro di tutta la vita, E schiuse sicura una porta All’eterna pace beata.Così la corrente di morte Fu vinta, guadata, passata. Or monaci, siate sereni; La via è raggiunta sicura.

M. 34 - IV PARTE - IV DISCORSO - IL BOVARO (2) CULAGOPALAKASUTTAM

Questo ho sentito. Una volta soggiornava il Sublime nella terra dei Vajji, presso Ukkacela, alla riva del Gange. La’ or si volse il Sublime ai monaci e parlo’ cosi’:Vi era una volta in Magadha, voi monaci, un bovaro di torbida intelligenza, che nell’ultimo mese della stagione delle piogge, in autunno, senza esaminare la riva di qua e quella di la dal Gange, spinse direttamente la sua mandria nel fiume, verso la riva di Suvideha. E quando i bovi furono giunti nel mezzo del Gange, furono travolti dalla corrente e andarono miseramente a fondo. Or cosi’ avviene anche, voi monaci, di quegli asceti o brahmani che non comprendono il mondo di qua e di la, non comprendono il regno della morte e quello senza morte, non comprendono la temporaneita’ e l’eternita’: chi vuole affidarsi all’arte del nuoto di costoro, cio’ riuscira’ a lui largamente di danno e dolore.Vi era una volta in Magadha, voi monaci, un bovaro di lucida intelligenza, che nell’autunno, nell’ultimo mese della stagione delle piogge, dopo attento esame della riva di qua e di quella di la dal Gange, spinse la sua mandra in un giusto guado, verso la riva di Suvideha. Prima spinse nel guado i tori, i padri della mandria, i duci; questi attraversarono la corrente del Gange e giunsero salvi all’altra riva. Quindi spinse nel guado le vacche e i buoi forti, ed anche questi attraversarono la corrente e giunsero salvi all’altra riva. Quindi spinse nel guado i giovenchi e le giovenche, ed anche questi giunsero salvi sull’altra riva. Quindi egli spinse nel guado i deboli vitelli, ed anche questi giunsero salvi all’altra riva. Infine vi era ancora la un tenero vitellino, nato proprio allora e tolto tra i muggiti alla madre, ed anche questo attraverso’ la corrente e giunse salvo all’altra riva. Or cosi’ avviene anche, voi monaci, di quegli asceti o brahmani, che comprendono il mondo di qua e di la, comprendono il regno della morte e quello senza morte, comprendono la temporanneita’ e l’eternita’: chi vuole affidarsi all’arte del nuoto di costoro, a lui cio’ riuscira’ largamente di bene e di salute.Ora, cosi’ come, voi monaci, quei tori attraversarono la corrente e giunsero salvi all’altra riva, cosi’ quei monaci, che sono santi, estinti, giunti alla fine, che hanno operato l’opera, si sono scaricati del peso, hanno raggiunto lo scopo, distrutto i vincoli dell’esistenza, si sono redenti in perfetta saggezza, questi hanno attraversato la corrente della natura, e sono giunti salvi all’altra riva. Cosi’ come quelle vacche e quei buoi forti attraversarono la corrente e giunsero salvi all’altra riva, cosi’ quei monaci che con l’annientamento dei cinque vincoli ascendono in alto per poi di la’ estinguersi, non piu’ tornare a questo mondo, anche essi attravereranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Cosi’ come quei giovenchi e quelle giovenche attraversarono la corrente del Gange e giunsero salvi all’altra riva, cosi’ quei monaci che hanno spezzato i tre vincoli, che si sono scaricati di brama, avversione ed errore, gia’ quasi purificati, che ritornano solo una volta, e solo una volta tornati a questo mondo, mettono fine al dolore, anche essi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Cosi’ come, voi monaci, quei deboli vitelli attraversarono la corrente e giunsero salvi all’altra riva, cosi’ quei monaci che dopo annientamento dei tre vincoli sono divenuti uditori del messaggio, sono sfuggiti al danno e consci dello scopo si affrettano al pieno risveglio, anche questi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva. Cosi’ come, voi monaci, quel tenero vitellino nato proprio allora, attraverso’ la corrente del Gange e giunse salvo all’altra riva, cosi’ quei monaci che sono inclini alla verita’, inclini alla dottrina, anche questi attraverseranno la corrente della natura e giungeranno salvi all’altra riva.Io pero’, voi monaci, comprendo il mondo di qua e di la, comprendo il regno della morte e quello senza morte, comprendo la temporaneita’ e l’eternita’. E quelli, che vogliono affidarsi alla mia arte del nuoto, ad essi cio’ riuscira’ largamente di bene, di salute.Questo disse il Sublime, ed aggiunse, il Benvenuto, il Maestro:Il mondo di qua e di la Chiaramente il Savio svelo’: Mostro’ di natura le leggi, E d’ogni dolore la fine.Ei vide con occhio svegliato Il giro di tutta la vita, E schiuse sicura una porta All’eterna pace beata.Cosi’ la corrente di morte Fu vinta, guadata, passata. Or monaci, siate sereni; La via e’ raggiunta sicura.

IV PARTE - 05 (35) Saccako (1) (Cûlasaccakasuttam)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Vesâlî, nella Grande Selva, nell’atrio dell’eremitaggio. Nello stesso tempo viveva in Vesâlî il giovane Nigantho Saccako, un valente dialettico, eccellente parlatore, altamente reputato da molti. Costui proclamava: “Vorrei conoscere quell’asceta o brâhmano, fosse egli anche un maestro con numerosi discepoli e seguaci, quand’anche egli si ritenesse Santo, perfetto Svegliato, il quale in discussione con me non vacillasse, tentennasse, tremasse, e non gli colasse dalle ascelle il sudore dell’angoscia! Sì, se io attaccassi col mio discorso una colonna inanimata, perfino questa, colpita dal mio discorso, vacillerebbe, tentennerebbe, tremerebbe; non parlo d’un omuncolo!” Ed ecco che l’onorevole Assaji, per tempo pronto, provvisto di mantello e scodella, si recò una mattina a Vesâlî per l’elemosina. Ma Saccako, il giovane Nigantho, proprio allora passeggiava per strada e lo vide arrivare da lontano. Gli si avvicinò, scambiò con lui cortese saluto e amichevoli parole, gli si mise a fianco dicendo: “Com’è dunque, caro Assaji, che l’ asceta Gotamo ammaestra i suoi discepoli, e di quale genere è l’insegnamento che presso i suoi discepoli ha massimo valore?” “Così, Aggivessano (nome della “gens” di Saccako), il Sublime ammaestra i suoi discepoli: ‘Il corpo, monaci, è mutevole, e pure mutevoli sono la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza. Il corpo, monaci, è vano, e vani sono anche la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza. Tutte le distinzioni sono mutevoli, tutte le cose sono vane’. “Brutte cose, davvero, abbiamo sentito, Assaji, apprendendo tale ragionamento dell’asceta Gotamo! Oh se potessimo una volta incontrarci e potessimo dialogare in modo da distruggere queste perniciose opinioni!” In quel periodo i principi Licchavî, col loro seguito di cinquecento uomini, erano convenuti nella Casa dei Signori della città per deliberare su alcune faccende. Il giovane Nigantho Saccako si recò là dove i Licchavî si trattenevano e li invitò a presenziare alla disputa tra lui e l’asceta Gotamo, dicendo: “Se in essa l’asceta Gotamo mi dirà le stesse cose che ho udito dal suo noto discepolo, il monaco Assaji, allora così come un uomo forte può trascinare, tirare, scrollare per il vello un velloso ariete, così farò io con lui. O così come un forte garzone d’un fabbricante d’acquavite può gettare in un profondo pozzo, tenere per un capo, tirare, trascinare e scuotere il grande filtro, così faro io con lui. Oppure come un valente purificatore d’acquavite può brandire per il manico, scuotere, sbattere, agitare l’alambicco da distillare, lo agiterò. O ancora come un elefante sessantenne scende in un profondo bacino con piante di loto e prende una doccia per suo piacere, così penso anch’io di prendere con l’asceta Gotamo una doccia per mio piacere. Vogliano gli illustri Licchavî essere presenti! Oggi avrà luogo una disputa tra me e l’asceta Gotamo.” Alcuni Licchavî si chiesero cosa sarebbe accaduto; chi dei due avrebbe vinto: il vanaglorioso Saccako o l’asceta Gotamo? E Saccako, il figlio di Nigantho, accompagnato dai Licchavî, si recò all’ atrio dell’eremitaggio. In quel momento una schiera di monaci stava uscendo, e Saccako, avanzando verso di loro chiese dove si trovava il signore Gotamo perché voleva vederlo. I monaci risposero che egli era nella Grande Selva dove si sarebbe trattenuto sino verso sera ai piedi di un albero. Saccako e i Licchavî si addentrarono nella Grande Selva, cercarono il Sublime, scambiarono con lui cortesi saluti e amichevoli parole e si sedettero. Alcuni Licchavî salutarono il Sublime con particolare rispetto giungendo le mani e dicendo i loro nomi. E Saccako prese la parola: “Posso interrogare il Signore Gotamo, se egli ha tempo di rispondere alle mie domande?” “Interrogami, Aggivessano, a tuo piacere.” “Com’è dunque che l’asceta Gotamo ammaestra i suoi discepoli, e di quale genere è l’insegnamento che presso i suoi discepoli ha massimo valore?” “Così io ammaestro i discepoli, e questo è l’insegnamento che ha il massimo valore: ‘Il corpo, monaci, è mutevole, e pure mutevoli sono la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza. Il corpo, monaci, è vano, e vani sono anche la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza. Tutte le distinzioni sono mutevoli, tutte le cose sono vane’.” “Mi viene un paragone, Gotamo. Così come tutti i semi e le piante che si sviluppano sono legate alla terra, o così come tutte le opere che richiedono forza sono legate alla terra, si appoggiano alla terra e così vengono eseguite: così pure l’uomo vive e si muove nella corporeità, appoggiandosi al corpo egli produce bene e male; vive e si muove nella sensibilità, basandosi sulle sensazioni egli produce bene e male; vive e si muove nella percettibilità e basandosi sulle persone egli produce bene e male; vive e si muove nella distinguibilità, basandosi sulle distinzioni egli produce bene e male; vive e si muove nella coscienziosità, basandosi sulla coscienza egli produce bene e male.” “Allora è forse questa la tua opinione: ‘Il corpo è me stesso, e anche la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza sono me stesso?’” “Appunto, Gotamo! Lo dice anche tutta questa gente!” “Che t’importa di tutta la gente? Contentati delle tue proprie parole.” “Orsù dunque, Gotamo, io ripeto: ‘Il corpo è me stesso, e anche la sensazione, la percezione, la distinzione e la coscienza sono me stesso?’” “Allora ti interrogherò su ciò. Rispondi alle mie domande come ti pare. Che pensi tu dunque, Aggivessano: per un consacrato re Khattiyo (?), come ad esempio per il re Pasenadi di Kosalo o il re Ajâtasattu di Magadhâ, figlio della Videhese, si può realizzare il desiderio di far giustiziare nel proprio regno un condannato a morte, o di far proscrivere chi lo merita, o di far bandire che è degno d’essere messo al bando?” “Sicuro, Gotamo. E’ cosa concessa persino a questi numerosi prìncipi qui radunati, come ad esempio ai Vajjî o ai Mallâ! Può essere fatto, Gotamo, ed è giusto che sia così!” “Che pensi tu ora, Aggivessano, che dici ‘il corpo è me stesso’, puoi realizzare il desiderio: ‘Così dev’essere il mio corpo, oppure così non dev’essere?” A queste parole Saccako Niganthaputto rimase muto. Una seconda volta il Sublime ripeté la domanda e Saccako Niganthaputto rimase muto. Allora il Sublime gli disse: “Rispondi, Aggivessano, adesso non ti conviene tacere. Chi interrogato per la terza volta dal Compiuto non fa onore alla verità, gli si spezza subito il capo in sette parti.” Ora uno spirito dalla mano fulminante, visibile però solo dal Sublime e da Saccako, era sospeso in aria sopra Saccako, con un raggio fulminante, incandescente, scintillante, fiammeggiante e lo minacciò, se non avesse risposto, di spezzargli il capo in sette parti. Allora Saccako, spaventato, scosso, coi capelli ritti, cercò salvezza e rifugio presso il Sublime, e Lo pregò di rifargli la domanda alla quale rispose che no, non poteva realizzare il desiderio di modificare il proprio corpo. E il Sublime ripeté la domanda per la sensazione, per la percezione, per la distinzione, per la coscienza. Poteva egli realizzare il desiderio di cambiarle a suo piacere? Saccako rispose che no, non era possibile. Nuovamente il Sublime gli chiese: “Allora che pensi tu: il corpo è immutabile o mutabile?” “Mutabile, Gotamo!” “Ma ciò che è mutabile, è doloroso o piacevole?” “Doloroso, Gotamo!” “Ma di ciò che è caduco, doloroso, mutevole, si può con diritto dire: ‘Ciò mi appartiene, ciò sono io, ciò è me stesso?’” “Certo che no!” “E sensazioni, percezioni, distinzioni, coscienza sono immutabili o mutevoli?” “Mutevoli, Gotamo!” “Ma ciò che è mutevole, è doloroso o piacevole? E di esso si può dire: ‘Ciò mi appartiene, ciò sono io, ciò è me stesso?’” “Doloroso, Gotamo! Certo che non si può dire!” “Chi si attacca al dolore, segue il dolore, è legato al dolore lo considera così: ‘Ciò mi appartiene, ciò sono io, ciò è me stesso?’” “Come sarebbe possibile? Questo no!” “Così come se un uomo che ha bisogno di legna, uscisse fornito di una scure tagliente e, nel bosco, scorgesse numerose piante di banani, ne abbattesse una alle radici, ne tagliasse la corona e ne svolgesse il tronco formato da guaine fogliari e non trovasse, non dico legno duro, ma neppure molle sughero: così nel tuo colloquio con me tu ti sei dimostrato vuoto, vacuo, leggero. Ti eri vantato coi Vesâlii di essere invincibile nei dibattiti, ma, mentre il mio corpo è libero di sudore, a te si sono staccate gocce di sudore dalla fronte e sono scivolate lungo il mantello a terra.” E infatti il Sublime mostrava un aspetto terso come l’oro. A questa osservazione Saccako, abbattuto e turbato, con la schiena curva, il capo basso, lo sguardo fisso, stette senza parola. E Dummukho, uno dei principi Licchavî, vedendo ciò, si rivolse al Sublime dicendo che gli veniva un paragone: “Così come se nelle vicinanze d’un villaggio o d’una città vi fosse un granchio in un laghetto, e una frotta di fanciulli e fanciulle andasse verso quel laghetto per fare il bagno, trovasse il granchio e lo gettasse fuori dall’acqua, sulla riva. E ogni volta che il granchio muove una chela i fanciulli lo colpissero con canne o con ciottoli, il granchio, con le membra peste, rotte, non sarebbe più in grado di trascinarsi di nuovo in acqua: così appunto a Saccako sono stati dal Sublime pestati e rotti tutti i suoi pungoli, le creste e gli aculei; ed ora egli non è più in grado di affrontarlo per rinnovare la discussione.” « Va’ là, Dummukho! Non parlo con te; parlo col Signore Gotamo. Bando alla dialettica usuale che ora mi pare vana ciarla! In che modo un discepolo del Signore Gotamo, sfuggito all’incertezza, permane, in nessun altro fidando, in sperimentata fiducia nell’Ordine?” “Ecco, Aggivessano, un mio discepolo esamina tutto ciò che vi è di corporeo, passato, futuro e presente, proprio o altrui, grosso o raffinato, volgare o nobile, lontano o vicino: egli considera ogni corpo, conforme a verità, con perfetta sapienza: ‘Ciò non mi appartiene, ciò non sono io, ciò non è me stesso’. Lo stesso per tutto quello che vi è di sensazioni, di percezioni, di distinzioni, di coscienza. Ecco come un mio discepolo è fedele all’Ordine, accessibile all’insegnamento, libero dal dubbio, sfuggito all’ incertezza e rimane, in nessun altro fidando, in sperimentata fiducia nell’Ordine.” “E in che modo un monaco è santo, estinto, ha operato l’opera, ha raggiunto lo scopo, distrutto i vincoli dell’esistenza, è redento in perfetta sapienza?” “Ecco, un monaco ha riconosciuto tutto quello che vi è di corporeo, di sensazioni, di percezioni, di distinzioni, di coscienza, passato, futuro e presente, proprio o altrui, grosso o raffinato, volgare o nobile, lontano o vicino, conforme a verità, con perfetta sapienza: ‘Ciò non mi appartiene, ciò non sono io, ciò non è me stesso’, ed è perfettamente redento. Egli ha raggiunto tre cose incomparabili: sapere, cammino e redenzione. Egli tiene in pregio il Compiuto, lo stima e lo onora: ‘Svegliato (buddho) è il Sublime, per il risveglio, per la pace, per la calma, per lo scampo, per la completa estinzione egli annuncia la dottrina’.” E Saccako: “Io fui certo presuntuoso, arrogante; credetti di potermi opporre al Signore Gotamo. Si può forse opporsi a un furioso elefante, ad una sibilante velenosa serpe, ad una fiammeggiante vampa senza riportarne danno, ma non così col Signore Gotamo. Mi faccia egli il favore domani di prendere il pranzo da me coi monaci!” Tacendo acconsentì il Sublime. Quando Saccako fu sicuro del consenso del Sublime, si rivolse ai Licchavî: “Ascoltatemi, illustri, provvedetemi, vi prego, di quello che a voi sembra conveniente per il pranzo di domani del Signore Gotamo e dei suoi monaci.” E il mattino seguente i Licchavî portarono un pasto per cinquecento persone, bell’e pronto. Il tutto fu portato nell’abitazione di Saccako e un messo fu inviato a dire che il pranzo era pronto. E il Sublime, preso mantello e scodella, si recò nell’abitazione di Saccako. Egli prese posto insieme ai monaci sui sedili approntati, e Saccako Niganthaputto servì di propria mano il Sublime ed i monaci con scelti cibi solidi e liquidi. Dopo che il pranzo ebbe fine, Saccako, prese un sedile più basso, si sedette accanto al Sublime e disse: “Quel che in questo dono vi è di buono e di buona intenzione, possa essere di beneficio per i donatori!” “Quel che, Aggivessano, s’è fatto per tuo onore, soggetto alla brama, all’ avversione, all’errore, ciò vale per i donatori; quel che s’è fatto in mio onore, non soggetto alla brama, all’avversione, all’errore, ciò vale per te.”

IV PARTE - 07 (37) ANNIENTAMENTO DELLA SETE (1) (CÛLATANHÂSANKHAYASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava presso Sâvatthî, nella selva orientale, sulla terrazza della madre di Migâro. Qui si rese Sakko, il re degli dèi, dove il Sublime dimorava. Lo salutò riverentemente e, messosi in disparte, così gli si rivolse: “Fino a che punto, Signore, un monaco, in poche parole, con l’annientamento della sete è redento e interamente provato, assicurato, santificato, compiuto, il più alto degli dèi e degli uomini?” “Re degli dèi, ecco che un monaco sente: ‘Nessuna cosa vale la pena’. Allora egli considera ogni cosa e comprende ogni cosa; e quando prova qualche sensazione, lieta , triste o neutra, egli osserva in queste sensazioni le leggi della caducità, della distruzione, della dissoluzione, dell’alienazione, e allora non prova attaccamento per nessuna cosa al mondo, e non attaccandosi non trema, non tremando raggiunge appunto la propria estinzione. Egli comprende: ‘Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo’. Ecco cosa accade.” Sakko, re degli dèi, rallegrato ed appagato dal discorso del Sublime, lo salutò con riverenza, girò verso destra e sparì di là. (Andare via tenendo una persona alla propria destra, così come fa il Sole nel suo moto apparente attorno alla Terra, è un atto di riverente riguardo, al pari della circumambulazione rituale “pradakshinâ” attorno al simulacro di una divinità o a un monumento sacro. Il non sedersi di fronte a una persona di riguardo, ma di lato ad essa, è un altro comportamento educatamente rispettoso. pam) L’onorevole Mahâmoggallâno, il grande Moggallâno, che era stato presente, seduto non lontano dal Sublime, [non avendo udito] si chiese se quel nobile spirito era stato completamente appagato o no, e allora, con la stessa facilità con cui un uomo forte piega o distende un braccio, sparì dalla terrazza ed apparve presso i trentatré dèi. In quel momento Sakko, il Potente, si tratteneva nel giardino dai bianchi fiori di loto, immerso nel godimento della musica celeste a cinquecento voci, e, vedendo giungere l’on. Mahâmoggallâno, fece cessare la musica, gli andò incontro e gli disse: “Vieni, degno Moggallâno, sii salutato! Da tempo ho sperato nel favore d’una tua visita! Siedi, prendi posto.” L’on. Mahâmoggallâno si sedette sul seggio offerto e Sakko, presa una sedia più bassa, gli si sedette accanto. L’on. Mahâmoggallâno chiese: “In qual modo dunque, Kosiyo (nomen gentile del dio), il Sublime ti ha brevemente esposto la redenzione mediante l’annientamento della sete? Sarebbe bene che anche noi divenissimo partecipi di questo discorso e lo sentissimo.” (pluralis maiestatis) “Noi abbiamo, degno Moggallâno, molti doveri, molti obblighi da adempiere, tanto nelle proprie cose che riguardo ai trentatré dèi, tuttavia il discorso è stato ben capito, osservato, serbato, in modo che non sarà così presto dimenticato. Una volta era scoppiata una guerra tra dèi e dèmoni. Quella guerra fu vinta dagli dèi, e, quando io ebbi terminato felicemente quella campagna ed ero ritornato vittorioso, costruii un castello e lo chiamai Vessillo della Vittoria. E il castello ha cento porte: ad ognuna delle porte vi sono sette volte settecento terrazze, su ognuna delle terrazze si trovano sette volte sette ninfe, ed ogni ninfa ha un seguito di sette volte sette compagne. Non desidereresti vedere le delizie del castello?” Tacendo assentì, l’on. Mahâmoggallâno. Quindi ora Sakko, re degli dèi, e Vessavano, il grande sovrano, preceduti dall’on. Mahâmoggallâno, si recarono al castello. E i satelliti di Sakko videro venire l’on. Mahâmoggallâno, arrossirono, si vergognarono e si ritirarono nei loro appartamenti, proprio come fa una nuora intimidita dal suocero. Sakko e Vessavano condussero Mahâmoggallâno in giro per il castello mostrandogli tutte le innumerevoli delizie. “Tale felicità risplende all’onorevole Sakko perché egli prima ha fatto bene. Gli uomini, quando vedono qualche cosa incantevole, dicono proprio: ‘Ah, ciò risplende come presso i trentatré dèi!’. Ma all’on. Mahâmoggallâno venne da pensare: ‘Troppo leggermente vive questo spirito; e se ora io lo scuotessi?’ Ed egli produsse un inganno magico che faceva sembrare come se egli col pollice facesse oscillare, tentennare, tremare il castello Vessillo della Vittoria. Sakko, Vessavano e i trentatré dèi furono profondamente colpiti dallo straordinario, meraviglioso evento. Quando Mahâmoggallâno vide Sakko stare là, scosso e con i capelli ritti, gli disse: “In quale modo dunque, Kosiyo, il Sublime ti ha brevemente esposto la redenzione mediante l’annientamento della sete? Sarebbe bene che anche noi divenissimo partecipi di questo discorso e lo sentissimo.” “Il Sublime mi disse che quando il monaco ha sentito che ‘Nessuna cosa vale la pena’, allora egli considera ogni cosa e comprende ogni cosa; e quando prova qualche sensazione, lieta, triste o neutra, egli osserva in queste sensazioni le leggi della caducità, della distruzione, della dissoluzione, dell’alienazione, e allora non prova attaccamento per nessuna cosa al mondo, e non attaccandosi non trema, non tremando raggiunge appunto la propria estinzione. Egli comprende: ‘Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera, non esiste più questo mondo’. Fino a tal punto un monaco, detto in poche parole, con l’annientamento della sete è redento, interamente provato, assicurato, santificato, compiuto, il più alto degli dèi e degli uomini.’ In tal modo il Sublime mi ha brevemente esposto la redenzione mediante l’annientamento della sete.” L’on. Mahâmoggallâno, rallegrato ed appagato da ciò che gli aveva riferito Sakko, con la stessa facilità con cui un uomo forte piega o distende un braccio, sparì dai trentatré dèi ed riapparve sulla terrazza della madre di Migâro, nella selva orientale. A questo punto i satelliti di Sakko, dopo la sparizione di Mahâmoggallâno, gli chiesero se colui che avevano visto era il Sublime, il Maestro. Sakko rispose che no, quello era un discepolo del Sublime. E quelli: “Beato te che conosci un discepolo di così potente magìa, di così potente forza: chissà come dev’esserti apparso Egli, il Sublime, il Maestro!” Allora l’on. Mahâmoggallâno si recò dal Sublime, lo salutò con rispetto, si sedette accanto e gli chiese: “Conferma, il Sublime, di aver appunto poc’ anzi brevemente esposto ad un certo spirito molto potente la redenzione mediante l’annientamento della sete?” “Lo confermo, Moggallâno.” Ed egli riferì tutto ciò che era avvenuto e tutto ciò che era stato detto.Così parlò il Sublime. Contento si rallegrò l’onorevole Mahâmoggallâno della sua parola.

IV PARTE - 09 (39) PRESSO ASSAPURAM (1) (MAHÂASSAPURASUTTAM)

Questo ho sentito. Una volta il Sublime soggiornava nel Bengala, presso una città bengali di nome Assapuram. Là il Sublime si rivolse ai monaci: ‘Asceti, essi sono asceti’: così pensano le genti di voi monaci. E voi, se vi si chiede: ‘Che siete voi?’, riconoscete: ‘Noi siamo asceti’. Voi, monaci, che così siete conosciuti e così vi riconoscete, avete anche da esercitare dei doveri e dire: ‘Ciò che spetta agli asceti ed ai santi, questo lo abbiamo accettato e lo compiremo. E questo appellativo che ci viene dato, dev’essere vero e il nostro riconoscimento effettivo. E per l’ elemosina di veste, cibo, tetto e medicina, i donatori devono presso noi ottenere alta ricompensa, alto merito. Il nostro ascetismo quindi non deve rimanere vano, ma raggiungere scopo e fine’. Ma che cosa spetta agli asceti ed ai santi? Voi monaci dovete esercitarvi ad essere verecondi e umili. Può forse venirvi il pensiero che essendo verecondi e umili, ciò sia sufficiente e basti: ‘Abbiamo raggiunto il fine dell’ascetismo, non abbiamo altro da fare’; e di ciò potreste già appagarvi. Vi avverto, monaci, vi avverto: voi che mirate al fine dell’ascetismo, possa esso non sfuggirvi, poiché vi è molto altro da fare. Cosa bisogna fare? Ecco come dovete bene esercitarvi: ‘Sincero sia il nostro agire, aperto ed onesto, non segreto ed occulto; e per questo sincero agire noi non ci insuperbiremo, né disprezzeremo gli altri’. E cos’altro c’è da fare? Sincero sia il nostro discorso, aperto ed onesto, non segreto ed occulto; e di ciò non ci insuperbiremo, né disprezzeremo gli altri. E cos’altro? Sincero sia il nostro pensiero, aperto ed onesto, non segreto ed occulto; e di ciò non ci insuperbiremo, né disprezzeremo gli altri. E cos’altro? Sincera sia la nostra vita, aperta ed onesta, non segreta ed occulta; e di ciò non ci insuperbiremo, né disprezzeremo gli altri. E cos’altro? Vigiliamo le porte dei sensi. Vigiliamo la vista, l’udito, l’ olfatto, il gusto, il tatto e il pensiero. Se vediamo una forma, se udiamo un suono, se percepiamo un odore, se percepiamo un sapore, se percepiamo un contatto e se riconosciamo col pensiero una cosa; non dobbiamo concepire inclinazione, né interesse. Siccome brama ed avversione, perniciosi e dannosi pensieri ben presto sopraffanno colui che non vigila, occupiamoci alacri di questo controllo, vigiliamo su tutti i sensi. E cos’altro? Così dovete esercitarvi: ‘Siamo misurati nel mangiare, consideriamo profondamente ogni boccone, destinato non a ristoro e diletto, non ad ornamento e fregio, ma solo a sostentare questo corpo, per evitare danno, per poter condurre una vita santa. Così smorzerò l’anteriore sensazione e non ne farò sorgere una nuova, e ne avrò abbastanza per un benessere senza macchia’. E cos’altro? Così dovete esercitarvi: ‘Vogliamo dedicarci alla vigilanza. Di giorno, camminando e sedendo; nelle prime ore della notte, camminando e sedendo; tergeremo l’animo da cose che lo turbano. Nelle ore di mezzo della notte ci stenderemo come il leone sul fianco destro, un piede sull’altro, con la mente raccolta, pensando al tempo del levarsi. Nelle ultime ore della notte ci leveremo di nuovo e, camminando e sedendo, tergeremo l’animo da cose che lo turbano’. E cos’altro? Così dovete esercitavi: ‘Di chiara coscienza noi ci vogliamo armare: chiaro-coscienti nel venire e nell’andare, nel guardare e nel distogliere lo sguardo, nell’inchinarsi e nell’alzarsi, nel portare l’abito e la ciotola dell’elemosina, nel mangiare e nel bere, nel masticare e nel gustare, nel liberare intestino e vescica, nel camminare e nello stare a sedere, nell’addormentarsi e nello svegliarsi, nel parlare e nel tacere’. E cos’altro? Ecco, monaci, il monaco cerca un luogo tranquillo, appartato, un bosco, il piede d’un albero, una grotta nelle rupi, una caverna di montagna, un cimitero, il folto d’una selva, un giaciglio di strame nell’ aperta pianura. Dopo il pasto, quando è tornato dal giro d’elemosina, egli siede con le gambe incrociate, il corpo eretto, e cura il sapere. Egli ha smesso la brama mondana e se ne sta con animo senza brama, terge il suo cuore dalla brama. Egli ha smesso l’avversione, dimora con animo senza avversione, pieno di amore e compassione per tutti gli esseri viventi, terge il suo cuore dall’avversione. Egli ha smesso l’accidiosa pigrizia, è libero da essa; amante della luce, savio, chiaro-cosciente, terge il suo cuore dall ‘accidiosa pigrizia. Egli ha smesso superbia e fastidio, ne è libero; con animo intimamente pacato, egli terge il suo cuore da superbia e fastidio. Egli ha smesso il tentennare, è sfuggito all’incertezza; non dubita di ciò che è salutare, terge il suo cuore dal dubbio. Come se un uomo, angustiato da debiti, s’impegnasse in affari; e questi avessero esito prospero, così che egli potesse estinguere il suo antico carico di debiti e gli restasse perfino un avanzo per mantenere una donna; allora egli si rallegrerebbe e ne sarebbe lieto. Come se un uomo fosse infermo, sofferente, afflitto da grave malattia, non sopportasse alcun alimento, non avesse alcuna forza in corpo, ma, trascorso del tempo, il morbo si rimuovesse da lui, il nutrimento gli facesse bene, il corpo acquistasse di nuovo forza; allora egli se ne rallegrerebbe e ne sarebbe lieto. Come se un uomo languisse nelle carceri, ma, dopo un certo tempo, egli venisse liberato, salvo e sicuro, e non soffrisse alcuna perdita nel suo avere; allora egli se ne rallegrerebbe e ne sarebbe lieto. Come se un uomo fosse servo, non padrone di sé, dipendente da altri, non potesse andare dove vuole, ma, trascorso del tempo, egli fosse liberato da questa schiavitù, divenisse padrone di sé, indipendente, libero, potesse andare dove vuole; allora egli si rallegrerebbe e ne sarebbe lieto. Come se un uomo ricco, facoltoso, viaggiasse per una [perigliosa] deserta e lunga via di campagna, ma, dopo un certo tempo, uscisse fuori da questo deserto senza averci rimesso nulla; allora egli si rallegrerebbe e ne sarebbe lieto. Ora così anche il monaco considera come carico di debiti, come malattia, come carcere, come schiavitù, come deserta e lunga via di campagna, quei cinque impedimenti esistenti in lui, ma egli considera come l’estinzione dei debiti, come la salute, come la liberazione dal carcere, come l’essere libero, come il luogo sicuro, quei cinque impedimenti da lui distrutti. Egli ha distrutto i cinque impedimenti, ha imparato a conoscere le scorie dell’animo come paralizzanti; ben lungi da brame, da cose non salutari, egli raggiunge, in senziente, pensante, nata da pace beata serenità, il grado della prima contemplazione. Egli compenetra e imbeve, riempie e satura di beata serenità questo corpo, così che nessuna minima parte di esso rimane insaturata di essa. Come un esperto barbiere, o un suo garzone, mette polvere di sapone in un bacile di metallo, la impregna d’acqua, la mescola e la strofina, così che la sua schiuma sia completamente inumidita, saturata dentro e fuori di umidità e niente goccioli giù: così pure il monaco compenetra e imbeve, riempie e satura questo corpo di pace nata da beata serenità, così che nessuna minima parte di esso rimane insaturata. E inoltre: dopo il compimento del sentire e pensare, il monaco raggiunge l’ interna calma serena, l’unità dell’animo, il grado della seconda contemplazione, libero dal sentire e pensare, nato dal raccoglimento. Questo corpo egli compenetra e imbeve, riempie e satura di beata serenità nata dal raccoglimento così che nessuna parte del suo corpo ne sia priva. Così come un lago con sorgente sotterranea, in cui non si versi da nessuna parte alcun ruscello, in cui non si scarichi nessuna nuvola, nel quale solo la fresca sorgente del fondo sgorghi e completamente compenetri, imbeva, riempia e saturi questo lago, così che nessuna parte ne sia priva; così fa un monaco con la beata serenità nata dal raccoglimento. E inoltre: in serena pace dimora il monaco equanime, savio, chiaro-cosciente, ed egli prova nel corpo quella felicità di cui i santi dicono: ‘L’equanime savio vive felice’; così egli raggiunge il grado della terza contemplazione. Questo corpo egli compenetra e imbeve, riempie e satura di serenità al di là della beatitudine. Così come in un lago con piante di loto, alcuni fiori, celesti, bianchi o rosa, sorgono nell’acqua, si sviluppano in essa, rimangono sotto la superficie, si alimentano dal fondo, e i loro fiori e le radici sono saturi d’acqua fresca; così il monaco imbeve di serenità non beata ogni parte del corpo. E inoltre, dopo il rigetto di gioia e dolore, dopo l’annientamento della letizia e della tristezza anteriore, il monaco raggiunge la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, il grado della quarta contemplazione. Egli si siede e copre il corpo con animo purificato, rischiarato, così che non la minima parte del suo corpo rimane scoperta. Così come se vi fosse un uomo seduto, avvolto dal capo alle piante dei piedi in un bianco mantello così che non la minima parte del corpo rimanesse scoperta; così un monaco siede col corpo coperto con animo purificato, rischiarato, in modo che nessuna parte del corpo rimane scoperta da esso. Con tale animo, saldo, puro, terso, schietto... egli dirige l’animo alla memore cognizione di anteriori forme di esistenza e ricorda: una vita, dieci, cento, mille, centomila vite; poi delle epoche durante parecchie formazioni, trasformazioni, formazioni e trasformazioni di mondi. ‘Là ero io, avevo quel nome, appartenevo a quella famiglia, quello era il mio stato, quella la mia attività, tale bene e male provai, così fu la fine della mia vita; di là trapassato entrai altrove di nuovo in esistenza; e così via ‘. Così egli si ricorda di molte diverse anteriori forme do esistenza, ognuna con i propri contrassegni, ognuna con le specifiche relazioni. Come se un uomo andasse dal suo luogo ad un altro luogo, e da questo ad un altro luogo, e da questo tornasse di nuovo al suo proprio luogo; e allora gli venisse il ricordo dei luoghi dov’era stato: così il monaco ricorda molte diverse anteriori forme d’esistenza. Con tale animo, saldo, puro, terso, schietto... egli dirige l’animo alla conoscenza dell’apparire e sparire degli esseri. Con l’occhio celeste, rischiarato, sopraterreno egli vede gli esseri sparire e riapparire, volgari e nobili, belli e brutti, felici ed infelici, egli riconosce come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono. ‘Questi cari esseri non retti in azioni, in parole, in pensieri, biasimano ciò che è salutare, stimano e fanno ciò che è dannoso; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono giù, su cattivi sentieri, alle perdizione, in modo infernale. Quest’altri cari esseri però sono retti in azioni, in parole, in pensieri, non biasimano ciò che è salutare, stimano e fanno ciò che è retto; con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, essi pervengono, su buoni sentieri, in un mondo celeste’. Come se vi fossero due case con due porte, e un uomo di buona vista, stando nel mezzo, osservasse come gli uomini vi entrano ed escono, vengono e vanno; proprio così il monaco vede con occhio celeste, rischiarato, sopraterreno come gli esseri sempre secondo le azioni riappaiono. Con tale animo, saldo, puro, terso, schietto... egli dirige l’animo alla conoscenza dell’estinguersi della mania. Egli comprende conforme a verità: ‘Questo è il dolore; questa è l’origine del dolore; questo è l’annientamento del dolore; questa è la via che mena all’annientamento del dolore. Egli comprende conforme a verità: ‘Questa è la mania; questa è l’origine della mania; questa è l’estinzione della mania; questa è la via che mena all’ estinzione della mania’. Così riconoscendo e vedendo, il suo animo viene redento dalla mania del desiderio, dalla mania dell’esistenza, dalla mania dell’errore. ‘Nel redento è la redenzione’ questa cognizione sorge. Egli allora comprende: ‘Esausta è la vita, compiuta la santità, operata l’opera non esiste più questo mondo’. Come se sulla sponda di un lago alpino, di acqua chiara, trasparente, pura, stesse un uomo di buona vista e guardasse conchiglie e chiocciole sulla ghiaia e la sabbia, ed i pesci che guizzano e stanno, e se ne rendesse conto: così anche appunto il monaco vedrebbe conforme a verità il dolore, la sua origine, il suo annientamento e la via che conduce al suo annientamento. Egli capirebbe la mania, la sua origine, la sua estinzione e la via che conduce alla sua estinzione. Un tale monaco viene chiamato “Asceta”, “Santo”, “Puro”, “Conoscitore”, “Libero”, “Superbo”, “Sovrano”. Ma come un monaco diviene tutto ciò? Egli s’è mondato delle cose dannose, non salutari, insozzanti, seminanti resistenza, orrende, covanti dolore, rinnovanti vita, vecchiaia e morte. È così che il monaco merita tutti quegli appellativi.”Così parlò il Sublime. Contenti si rallegrarono i monaci delle sue parole.

 

Editato e condensato da Pier Antonio Morniroli / Enrico Federici"

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